I social, con il loro profluvio di parole, ci hanno disabituato a utilizzarle con parsimonia per custodirne il vero significato: si sviliscono così i sentimenti, le relazioni, il senso stesso del pensiero, derubricato sempre più a finzione, a simulacro indecoroso, a onda lutulenta di inezie. Recuperare pertanto l’esattezza e la parchezza del dire, anche in poesia, acquisisce un valore precipuo nell’epoca odierna. Senza andare troppo in là nel tempo o scomodare soverchiamente questo o quel classico, ecco che Giulio Mazzali, fors’anche per la sua professione di docente, coglie nel segno ponendosi, in questa sua nuovissima raccolta La pratica del buio uscita per Italic PeQuod (con prefazione di Claudio Damiani), dal lato dell’ascoltatore, di una figura cioè che pur non rinunziando ad abitare con la sua presenza l’universo che lo attornia si distanzia dai rumori e dai frastuoni, dalle nequizie che sempre più siamo costretti a subire e a vivere in ogni dove. Per lui “le parole sono chiodi”, del resto, sicché abusarne, ridurle a sterili contenuti di comunicazione, appare esiziale. Ricorrendo, cum grano salis, ad accenti e citazioni di poeti classici come di contemporanei, Mazzali si colloca a lato degli accadimenti, ne cerca il loro senso più profondo, ne recepisce le plurime sfaccettature studiando e compulsando le conseguenze. Ha ben chiaro quanto sia fitta la nebbia che ci invade, il buio che ci percuote, quello “spettacolo del vuoto” che non sappiamo arrestare, il fragile equilibrio su cui si regge il filo sottile dell’esistenza. Dal dramma, dalla selva oscura, è tuttavia consentito risalire in superficie poiché “cresce tra notti e storture / la nuova umanità”. E proprio per questo è d’uopo non cedere allo sconforto bensì riscoprire quanto l’interiorità e la coscienza siano necessarie per ricostruire una nuova dimensione dell’umano, anche con decisione (“lotta l’anima, non cede”). In questo cammino si può sperimentare la conversazione con l’altro da sé: il poeta attuale “dialoga” ad esempio con le figure che ne hanno segnato la formazione o più semplicemente indicato una traccia su cui intraprendere un percorso individuale (è il caso di Giorgio Caproni, presente tanto in esergo quanto chiosato nei testi): anche questo è ciò che Mazzali mette sul piatto di una scrittura precisa, rarefatta, in cui aforismi, epigrammi, gnomici sguardi costituiscono una cifra esemplificativa di un verseggiare breve ma efficace che non disdegna di elevare a elemento tipizzante il minimo episodio della natura. Del resto la poesia non può solamente interrogare o interrogarsi sul destino dell’uomo o disegnare nuovi universi paralleli accanto al nostro, ma altresì interpretare, con lo sguardo che l’uomo comune non possiede, il tempo che batte nei ritmi silenti della natura. A fungere da filo comune dell’intera opera è la gentile e fragile speranza, tra lieti sospiri e attese irredente: è grazie ad essa, “come foglie trepidanti / nell’abisso dell’eterno”, che non ci stanchiamo di incedere, ad onta di tutto, per guardare ciò che sta dinnanzi, ciò che non si ferma. E con la speranza Mazzali non rinuncia a sognare, a sublimare nel mondo onirico il faticoso qui ed ora affinché tutto si ricomponga, si ripristini l’ordine delle cose, la natura recuperi una primigenia forma di sé, “come l’uomo / un tempo sé stesso, / quando fiorire / era l’unico avvenire”. Quel “sale della terra: il sole” che sempre per il labronico Caproni fungeva da chirurgico desiderio, nel poeta qui studiato è il “respiro del mondo” ad apparire vitale. E ritorniamo nuovamente, in conclusione, all’ascolto, via privilegiata per recepire, ritenere, sedimentare ciò che il tempo ci detta e che può elevarci rispetto alla nostra misera, solipsistica condizione di uomini e donne vagabondi d’Amore.
Federico Migliorati
Vivere su un’isola
Vivere su un’isola
prigionieri delle onde.
Lo sanno i marinai
prossimi alle vele –
il mare
decide per noi.
Senza madri al tepore
dell’ultimo respiro.
Le parole sono chiodi
tra le pieghe delle mani.
Preghiere
Seguire le geometrie
di una piazza, capire
che non s’incontrano
dove vogliamo;
vedere il verde farsi spazio
tra acumi sempre più radi,
e non capire, innaturale,
l’insensata voglia d’infinire.
È per questo che vi chiedo
rimanete mortali –
polvere o cenere,
così sia.