La poesia, ancora? – Gian Mario Villalta


La poesia, ancora?, Gian Mario Villalta (Mimesis, 2021).

La poesia, ancora? di Gian Mario Villalta è un piccolo trattato filosofico-scientifico sull’essenza e l’origine della poesia che si apre, non troppo singolarmente, con un tributo alla “cultura pop”: un riferimento a L’attimo fuggente, il poetico film del 1989 con Robin Williams nei panni di un professore “sui generis” in un rigido college americano. Il titolo originale della pellicola è Dead poets’ society e l’autore lo usa per porsi, tanto per cominciare, una domanda molto attuale. Com’è che i poeti sono “morti”? Non è che per caso i poeti “debbano essere” morti? Esistono, o possono esistere, poeti vivi?

L’accenno all’idea, diffusa e paradossale, che la poesia non sia cosa del presente (e forse neanche del quotidiano) è solo la sponda per una riflessione più profonda sul rapporto tra poesia e tempo. La poesia ci separa dal presente – che è sempre troppo angusto, troppo misero per la portata della parola poetica – la poesia espande la nostra percezione e ci porta fuori da noi stessi, a proiettarci in una dimensione insieme più vasta e più profonda del qui e dell’adesso. La poesia ci trasferisce in un “altro tempo”, fa schiudere il presente come un fiore; la parola poetica ha un valore “seminale” che risulta dall’incontro tra l’attualità, la contemporaneità della lingua e la continuità, la tendenziale l’eternità del senso.

“La poesia, l’arte della parola lirica e della narrazione, nel suo legame con la lingua e con la radice stessa della creatività umana è davvero il motore segreto del mondo”. Questo il teorema di fondo di Villalta, che lo dimostra interrogandosi intorno a una serie di questioni note e però sviluppate secondo una prospettiva inedita.

Il problema del valore dell’arte è per l’autore una sovrastruttura consumistica, tipica perlopiù del nostro mondo bombardato dagli stimoli e oberato dalla quantità. Il valore, secondo Villalta, si riversa nel “motivo”, quello cioè che “muove il fare umano nell’intenzione dell’arte” e poi fa reagire il fruitore “al fare che questa intenzione pone in atto”.  L’opera d’arte è un cammino, uno sviluppo, una ricerca della via che consente all’artista di riconoscersi nell’opera. È, pure, un filo teso fra tradizione (anche inconsciamente percepita) e attualità, è un atto spirituale e materiale che conduce alla conoscenza della realtà e di sé.

Nella domanda, ovvia e complicatissima, su cosa sia la poesia, Villalta adotta come punto di riferimento Paul Celan. Una lettera di Celan ad Hans Bender, del 1960, è il suo “verbo”. Vi si trova scritto: “Io non vedo nessuna differenza sostanziale tra una stretta di mano e una poesia”; e poi che le poesie sono frutto di una “sperimentazione senza limiti col materiale linguistico” e al contempo “doni per chi sta all’erta”, “doni che implicano destino”. Ma fino dalla radice, dal concetto di arte e dal rapporto tra arte e artista, Villalta fa propria l’idea intricata e affascinante di Celan: “L’opera d’arte è nella relazione tra chi operando all’opera diventa artista e l’opera che, facendo di lui un artista, si compie. È qualcosa che è antichissimo e presente, è l’uomo esposto alle forme dell’esistente che opera alla forma allegorica della sua esistenza in un processo di autocomprensione”.

La poesia come “stretta di mano” è il primo degli argomenti derivati da Celan che Villalta sviluppa nel libro, in un discorso intriso di antropologia e di scienza. Con Leopardi, ribadisce che la poesia è legata al “commercio coi sensi”. L’esperienza estetica, come percezione di sé e del mondo, del dentro e del fuori, non può che nascere dall’esperienza sensuale. I sensi, del resto, non sono strutturati secondo la comune partizione: “non sono isolati gli uni dagli altri” e “vivono in una complessa coesistenza” col linguaggio e l’immaginazione. I sensi dettano l’agire, che è governato dalle emozioni, dalla spontaneità, ed è orientato alla sopravvivenza. L’agire, poi, si sostanzia nel movimento, che scaturisce da un istinto e mira a uno scopo. Ma un’anomalia, una sorpresa nella percezione dei sensi, porta l’uomo a estrarre il “gesto”, cioè lo schema del movimento isolato dallo scopo. Il gesto è alla base del “fare”: l’attività di trasformazione che porta a compimento l’uomo. La trasformazione è a un tempo manipolazione (atto fisico) e simbolizzazione (atto intellettivo), legate come due facce della stessa medaglia. Fare è divinare l’invisibile e creare l’inesistente. Un minuzioso preambolo porta Villalta al punto cruciale del discorso: “Creare è, per l’uomo, vivere. È diventare uomo, continuare a diventarlo, che è l’unico modo che conosce per essere uomo”.

Il secondo spunto offerto dalla riflessione di Celan sulla poesia riguarda il linguaggio. Villalta esamina il rapporto tra la parola, fatta di suoni e legata a un ritmo, e la scrittura, che fissa la parola in uno o più segni tracciati dalla mano. C’è un collegamento tra scrittura e parola, o piuttosto tra parola detta e parola scritta, ma anche un’autonomia. La parola scritta non vuole solo riprodurre la voce: è un modo diverso, più accurato di dire quello che si “vuole dire”.

Attraverso il De vulgari eloquentia di Dante, Villalta aggiunge un ulteriore tassello. Il linguaggio, dice, non serve in prima battuta a comunicare, ma addirittura a pensare. Consente, cioè, di concettualizzare: astrarre, evocare, rappresentare l’invisibile, creare simboli.

La poesia è il frutto – uno dei frutti – di tutto questo articolato quadro di esperienze e attività. È scrittura legata al suono, alla metrica e alla prosodia, per una volontà di evocazione e una necessità di memorizzazione che rimandano agli stadi più antichi dell’evoluzione umana. È, anche, scrittura influenzata dalla tecnica e dalla storia (si pensi al ruolo della stampa nella definizione del verso e della metrica poetica). È lingua e voce, la voce del poeta che riesce a farsi voce degli altri e la voce del fruitore, di un altro che trova sé nella voce del poeta. Soprattutto la poesia è “l’operare dell’opera”, nei confronti di chi la scrive e di chi la legge, secondo un concetto che Villalta prende in prestito da Heidegger. La poesia rappresenta per il lettore una sorpresa, uno spaesamento che lo attira e lo trattiene nella dimensione dell’opera, allo stesso modo in cui l’autore vi è stato trattenuto per la sorpresa che lo ha spinto a “fare” l’opera. Villalta è deciso nell’escludere dal perimetro della poesia le manifestazioni estemporanee, per quanto brillanti, di invenzione verbale. Ne esclude, in quanto tali, lo status sociale che l’autore incarna o rappresenta, le idee che proclama, i diritti che reclama. Ne esclude, sempre in quanto tali, gli esercizi di pubblicità, di seduzione o presunta spontaneità che caratterizzano le più recenti evoluzioni “social” del linguaggio. La coscienza di una genealogia e il rapporto con questa genealogia fa la poesia, la consapevolezza delle ragioni e delle forze che hanno opposto il perdurare all’effimero. È questa consapevolezza che predispone ad accogliere il “dono” e a dire quello che si “vuole dire”. La poesia sta nel presente, dal presente prende spunto, ma lo semina e lo fa “fiorire” perché è capace di riconnettersi a una tradizione (il “dialogo coi morti” di cui parlava Gide) e di attingere a una dimensione ulteriore, al riflesso di un mistero e di una tana, di qualcosa che ci turba e insieme ci è familiare.

Saggio complesso e “seminale”, La poesia, ancora? di Gian Mario Villalta fonde la sistematicità accademica con un approccio più creativo, sposa il metodo argomentativo con l’appello ai sensi e la mozione degli affetti che alla poesia più propriamente appartengono. La strada tracciata dall’autore ha a volte la persuasività della scienza esatta e a volte il fascino più incerto dell’interpretazione possibile, ma sempre offre scorci rivelatori e stimoli affascinanti, che attirano e trattengono i palati fini tanto quanto gli appetiti più elementari di chi solo “traffica” con le parole.

Leonardo Guzzo

 
 

Gian Mario Villalta a Una Scontrosa Grazia
 

Alcuni estratti dal capitolo “La poesia e l’immagine”

[…] Abbiamo visto che il verso e la strofa sono l’intelaiatura che intesse con i processi della memoria operativa una trama sonora. Ma il tessuto, il testo della poesia, non è fatto di meri suoni (asemantici), anzi, la nostra memoria operativa si stanca presto di lavorare con suoni irrelati e, una volta che ha capito che deve aspettarsi solo quelli, o si accorge che presto diventeranno musica o lascia perdere. Se poi questi suoni sono scritti, nelle forme che meglio si desiderano (*aeeello, *titiaaalo,*bireiiti, e che altro si voglia inventare), non appena abbiamo escluso che vi sia un’intenzione di senso afferrabile, non si riesce a procedere oltre. Mentre se qualcuno “ti sbernecchia” e tu “l’accazzi”, per quanto *sbernecchiare e *accazziare non siano nel vocabolario, qualcosa arriva.

La poesia è condannata a produrre un significato e, quando questo significato risulta oscuro, a indurre formalmente delle ragioni per ricavarne in ogni caso un senso. E la nostra mente è fatta in modo da operare a colmare i vuoti di senso in ogni situazione. Al punto tale che vi è anche un “senso del nonsenso”, ovvero anche quando ci si spinge molto avanti sul limite del puro gioco di parole è necessario che vi sia un’implicazione specifica della nostra competenza linguistica e uno specifico effetto. Lo Jabberwocky di Lewis Carrol è un esempio. Ma ve ne sono molti altri.

C’è insomma un nonsense che “ci dice qualcosa” e un non-senso che “non ci dice niente”.

Da questo estremo limite si comprende che un’escursione nel campo della semantica, ovvero del significato delle parole, che risulti utile per comprendere la poesia è piuttosto difficile. Troppe le variabili di lingua e di contesto. Ci troveremo inoltre a doverci interessare più della lingua che della poesia, poiché diventano lingua le creazioni semantiche efficaci, mentre è inafferrabile l’evento che le crea. Un’efficace metafora è forse descrivibile, ma non vi è nessuna ricetta per confezionarne un’altra.

La semantica, e infine il senso, sono in gioco nell’evento della poesia; e il giocatore che ascolta (o, soprattutto, legge) partecipa attraverso l’organizzazione del suono e i processi di visualizzazione.

Possiamo rischiare un collegamento tra visualizzazione e immaginazione? È lecito andare oltre la spazializzazione del tempo della lettura e tentare la presa sulla formazione delle immagini che la semantica del testo suggerisce?

Non è facile, ma si può tentare qualche osservazione.

Per cominciare, partiamo dal fatto che oggi si dice comunemente “leggere una poesia”, e l’ascoltare è considerato ancora un momento speciale.

Solo qualche parola su un argomento che è destinato a ritornare, per mettere in luce un paradosso: la comunicazione elettronica e le più numerose occasioni pubbliche veicolano forme di poesia che acclamano l’oralità e privilegiano la modalità dell’ascolto – è curioso che alla fine questi poeti vogliano tutti fare un libro. Oppure il libro è un espediente per monetizzare le loro performance?

Tutto ciò, anche se un po’ polemico, voleva solo insistere sul fatto che la poesia è diventata per la nostra cultura attuale una tradizione di lettura e non di ascolto.

E quindi conviene iniziare con il notare che una poesia è un’immagine essa stessa.

Se copriamo con un pennarello, alla maniera di Emilio Isgrò, le righe di un sonetto, riconosciamo la forma del sonetto sullo sfondo bianco della pagina.

Anche senza questo espediente, riconosciamo il sonetto sulla pagina prima ancora di iniziare a leggerlo.

[…]  
Apolide - Mary Barbara Tolusso 2
 

Dal capitolo “La poesia, ancora?”

[…] È vero, e va considerato, che la modalità propria della comunicazione della poesia, costituita e circoscritta nel perimetro della tradizione in quanto pagina cartacea, è oggi esposta alle nuove forme di comunicazione sociale e alle conseguenze estetiche dell’evoluzione tecnologica. È un ragionamento che abbiamo già proposto: mentre la comunicazione generalmente veicola e rende operativi i significati e i simboli socialmente condivisi, al fine di innescare dei processi che hanno nei diversi ambiti della società i relativi effetti, la tradizione dell’arte costituisce a sistema comunicativo un ambito specifico dell’operare, cioè circoscrive quanto è socialmente trasmissibile di ciò che è proprio dell’arte, la quale è quell’esperienza che interroga la percezione e l’esistenza psichica. La tradizione è l’area di quell’indugiare, ovvero quella diversa temporalità, che riguarda la fruizione artistica, ove la “simultanea irriducibilità e asimmetria di percezione e comunicazione” incrociano le forme sul piano della loro continuità e discontinuità. Mentre la comunicazione invade sempre di più lo spazio dell’estetica, cancella ogni indugio e accelera la chiusura di ogni circuito comunicativo (fino a sostituire l’emoticon alle parole).

La tradizione, detto diversamente, è la rete; la poesia è il pesce. Se è vero che non si deve mai confondere la rete con il pesce – un fatto che può avere pessime conseguenze – è altresì vero che senza la rete il mare resta pieno di pesci che non riusciamo mai a pescare.

Se scrutiamo nei tempi diversi della lunga tradizione della poesia, rileviamo che non sono mancati squarci e rammendi alla rete – per continuare l’immagine metaforica – né nuove reti fatte di materiali diversi; e c’è stato chi ha tirato su un gran pesce con una lenza e chi l’ha catturato a mani nude (ma i casi sono rari e isolati, paragonabili a quelli dei validi musicisti che non hanno mai conosciuto un’ora di apprendimento musicale tradizionale – però anche questi hanno incontrato la musica in un “contesto di tradizione”).

In altre parole, proclami, comportamenti, gesti estremi, vicende biografiche, situazioni sociali, relazioni vincenti con il pubblico, nuove tecnologie, sono sempre state parte della vita della poesia. E la modernità è stata sotto numerosi riguardi il teatro sociale che ha visto portare alle estreme conseguenze l’equivoco della diversità e dell’esotismo come sostituti del labor indefessus per rispondere a una chiamata che non è indirizzata a un “io”, ma a qualcosa che lo inquieta. Un’inquietudine che può essere simulata, è ovvio, e rende possibile mostrare il salto mortale sulla scena sociale senza essere sfiorati dal vero pericolo. Un equivoco che diventa totale fraintendimento quando l’opera non fa più differenza rispetto alla comunicazione sociale nel circuito istantaneo globale.

La tradizione era proprio l’agorà (o l’arena) nella quale questi aspetti collegati al fare poesia erano discussi, confrontati, chiamati a forza a mostrare le proprie carte e a giocarle sul piano di quel “discorso comune” che la tradizione stessa garantiva. Anche generando fratture all’interno delle istituzioni. Anche contrapponendo critica e poesia, per esempio. Oppure teoria e poetica.

Oggi vediamo che per molti aspetti della vita quotidiana questo appello a un “discorso comune” non solo viene disatteso, ma è assente, anzi pare che avvenga il contrario: tanto più appare efficace un gesto comunicativo quanto più si sottrae al confronto con il “discorso comune” al suo contesto o lo nega. Con il seguente risultato: ci sono atteggiamenti e parole che tendono a ottenere il massimo del consenso in quanto poesia sottraendosi o negando qualsiasi “discorso comune” sulla poesia. Le parole “emozione” e “comunicazione” hanno preso il posto di ogni ragionamento, di ogni indugio, e hanno messo in primo piano il gesto o il dato biografico, assumendoli quasi a genere letterario totale.

È certo che queste riflessioni corrono il rischio di fare ulteriore accumulo sul monte di analoghe critiche (e spesso semplici “lamentele”) che ricorrono in ogni epoca nei discorsi sull’arte in genere e sulla poesia in particolare. L’intento è quello di invitare a pretendere molto, e sempre di più.

Dobbiamo però affrontare un altro argomento, non di poco rilievo. Non è di oggi, infatti, la messa in questione della tradizione dell’arte come luogo proprio dell’origine dell’arte stessa. Questo l’abbiamo già dato per acquisito con il precedente esempio metaforico della rete e del pesce. È il motivo che ci ha invitato a scrivere i primi capitoli, con i quali abbiamo cercato di fornire alcuni elementi per la considerazione del rapporto tra lo stare sulla terra del corpo-psiche e la relazione con il fare e il fruire l’opera d’arte.

Però ancora oggi permangono non pochi equivoci al riguardo.

La conoscenza e l’esercizio delle regole tradizionali di versificazione, la coscienza dell’evoluzione delle forme poetiche, i cosiddetti “ferri del mestiere”, insomma, sono i presupposti sufficienti per fare poesia? La risposta è semplice: no. Ma hanno una loro ragione di necessità: non appena si entra in relazione con la poesia vi sono domande e risposte che troviamo già disponibili nella tradizione lungo percorsi riconoscibili. È meglio trovare una rete che dobbiamo rammendare e in parte ricostruire invece che rifarla da capo filo per filo. Oppure pensiamo di cavarcela con una trovata? Certo, la rete non è il pesce. Ma questa è un’acquisizione recente, rispetto alla lunga vicenda della poesia.

Per secoli si era buoni o cattivi poeti, senz’altro. Poi, per altri secoli ancora, si era magari versificatori (si seguivano tutte le regole) ma non veri poeti.

[…]