Il Dialogo della Moda e della Morte, composto da Giacomo Leopardi cento anni fa, nel febbraio del 1824, non ha incontrato il favore dei critici: Manfredi Porena lo relega fra i dialoghi “meno riusciti”, Walter Binni lo qualifica come “poco originale” e Fubini lo giudica “mancante di un centro lirico o logico”. Raoul Bruni afferma, invece, che il testo anticipa alcuni nuclei tematici fondamentali dell’opera leopardiana che saranno in seguito sviluppati in testi decisivi come Il Parini ovvero della gloria, nel Dialogo di Tristano e di un amico e la Palinodia del marchese Gino Capponi. Si ritiene che il vocabolo «moda» sia stato introdotto nella letteratura italiana da Agostino Lampugnani in un’opera del 1648, mentre il primo componimento letterario di una certa ampiezza interamente dedicato all’argomento fu il poemetto del bassanese Giovanni Battista Roberti intitolato, “La moda”, la cui prima redazione risale al 1746 (si ricordi che nella Biblioteca di casa Leopardi era presente la raccolta complessiva del 1789 delle Opere di Roberti).
Il Roberti nacque a Bassano del Grappa il 4 marzo 1719, dal conte Roberto e dalla contessa Lucrezia Francesca Fracanzani di Vicenza. La famiglia era agiata e di antica aggregazione al Consiglio municipale di Bassano, ma anche a quelli di Padova e di Belluno. Le sue vicende biografiche possono essere ricostruite attraverso le Memorie intorno alla vita dell’abate Roberti del vecchio precettore di casa, l’abate Agostino dal Pozzo.
La sua prima formazione si svolse presso i gesuiti come alunno esterno. Fin dal 1729 fu domiciliato a Padova presso il sacerdote don Giacomo Gambarati. Il 20 maggio 1736 Roberti entrò come novizio nella compagnia di Gesù, presso l’Istituto S. Ignazio di Bologna. Nella stessa città completò la sua preparazione filosofica presso il collegio di S. Lucia, dove nel 1743 venne ordinato sacerdote. Dopo la Moda pubblicò la prima edizione delle Fragole (1752), in due canti, che anticipò in chiave campestre l’interesse dello scrittore per l’idea di natura. Entrambe le opere furono pubblicate per iniziativa del fratello maggiore, il conte Guerino Roberti. In versi sciolti fu composto un altro poemetto dal titolo Le perle (1756), ispirato alla satira oraziana e attento a cogliere le vanità della società del tempo. Completa questa prima fase della produzione giovanile in poesia L’armonia (1762), considerata come l’elemento che guida l’universo politico e la natura. Nel 1746 Roberti si trasferì a Parma, presso il collegio dei nobili, dove insegnò retorica e ricoprì la carica di accademico fino al 1751. Nello stesso anno fece ritorno a Bologna, dove insegnò filosofia nel collegio di S. Lucia. Vi rimase quasi vent’anni, e la sua attività principale fu quella di tenere lezioni di Sacra Scrittura, nel collegio di Santa Lucia, compito che assolse ininterrottamente dal 1755 al 1773. Da Bologna Roberti proseguì i contatti con la tipografia dei Remondini di Bassano: nel 1772 pubblicò presso di loro l’opuscolo Del lusso. Discorso cristiano con un dialogo filosofico, inserendosi sul dibattito europeo sui valori che il lusso rappresentava. L’esistenza di Roberti venne completamente trasformata nel luglio del 1773 con la soppressione della Compagnia decisa da Clemente XIV. Abbandonata Bologna, dopo un breve peregrinare fra Padova e Treviso, scelse la sua residenza a Bassano nel giugno dello stesso anno. Al 1773 sono databili le Favole esopiane (ripubblicate a Bassano nel 1782, in edizione accresciuta di cento favole) in cui le vicende degli animali possono essere interpretate come uno specchio morale dei costumi, delle vanità e delle mode del Settecento. Nel 1774 venne incaricato dal vescovo di Vicenza delle confessioni a Bassano e per circa sette o otto anni tenne anche l’insegnamento del catechismo alla domenica. Nel 1778, in occasione della professione di fede della nipote contessa Anna Maria Roberti nel monastero di S. Benedetto di Padova, scrisse il Panegirico di San Francesco di Sales, con un trattatello sopra le virtù piccole. Piccole virtù intese nello spirito di semplicità di san Francesco, esse erano virtù sociali, che presentavano tratti di urbanità e rendevano la vita degli uomini più sopportabile. L’immensa fortuna ottocentesca del trattatello confermava la poliedricità di questo autore studiato da Niccolò Tommaseo e letto con giovanile curiosità da Giacomo Leopardi. Eppure, come altri confratelli ex gesuiti, egli seppe prontamente ricreare nuovi spazi culturali collaborando più intensamente con i Remondini, per i quali pubblicò le proprie opere. La predilezione per il genere epistolare compare nella Lettera ad un illustre prelato sopra il predicare contro gli spiriti forti (1781), dedicato ai modi pericolosi con i quali venivano denunciati dal pulpito l’incredulità e l’ateismo alla moda. Nello stesso anno l’ex gesuita pubblicò le Annotazioni sopra la umanità del secolo decimottavo (1781), che esalta la vera e non falsa umanità, suggellata dalla carità cristiana e denuncia la condizione miserevole dei contadini e dei carcerati, con una rara sensibilità per le condizioni igieniche. Nella seconda edizione (1786) aggiunse la fittizia Lettera di un ufficiale portoghese ad un mercante inglese sopra il trattamento de’ negri, in cui l’utilità sociale della religione umanizzava la tratta dei negri, migliorando le condizioni di vita degli schiavi, ma non giungeva a una proposta antischiavista alternativa che emancipasse l’uomo. Forse l’opera più completa fu il lungo saggio la Probità naturale (1784) il cui fine era di provare le tesi che il vero cristiano era il vero uomo onesto e che non ci può essere vera onestà senza religione. Appartengono a quest’ultimo periodo gli Opuscoli quattro sopra il lusso (Bassano 1785) in cui l’economia venne considerata una virtù che contribuiva alla durevolezza e concordia delle famiglie. Per Roberti il lusso diveniva reprensibile quando era eccessivo, sontuoso, contrario allo spirito di mortificazione, proprio dell’uomo peccatore, volubile. Situazione che, in definitiva, rendeva impossibile la carità e produceva ingiustizie. Morì il 29 luglio 1786 a Bassano.
Da ricordare il dialogo dell’abate Saverio Bettinelli del 1799 “Amore e la Gran Moda”, che si presta ad essere accostato al testo di Leopardi. Nel recanatese il nesso moda-morte acquista una profondità filosofica sconosciuta alla tradizione letteraria precedente, non solo italiana. L’autore si inventa una genealogia mitica, facendo discendere la Moda e la Morte da una madre comune: la Caducità. Caducità dovuta al consumismo, alle esigenze del mercato e alla vanità delle cose e delle persone. Secondo il poeta, le mode si susseguono continuamente, perché una moda, per affermarsi, deve aspettare che muoia quella che l’ha preceduta. La Moda per questo si dichiara “immortale” provocando la risposta ironica della Morte sulla scomparsa degli immortali. Segue la battuta della Morte che si dichiara “nemica capitale della memoria”. Commenta Giovanni Gentile (pag. 322): “La Morte facendo morire le cose, le fa poi dimenticare: se il ricordo in un primo tempo sopravvive, poi anch’esso muore a poco a poco, partecipando della sorte comune a tutte le cose umane”. Tema che trova la sua suprema esaltazione nei Sepolcri del Foscolo: la memoria delle vicende e degli uomini pervade anche i luoghi che ne sono stati teatro (come la battaglia di Maratona), diventa tradizione e mito come la vicenda di Aiace che si vede restituite dal minaccioso risuonare della marea le armi di Achille. Ma è la poesia soprattutto che vince l’azione distruttrice del tempo, trionfa sul silenzio dei secoli, rende immortali le grandi azioni e il Foscolo, come poeta, si sente chiamato a questa funzione celebrativa ed eternatrice, come dichiara nella Lettera a Monsieur Guillon: “Anche i luoghi ov’erano le tombe dei grandi, sebbene non vi rimanga vestigio, infiammano la mente dei generosi. Quantunque gli uomini di egregia virtù siano perseguitati vivendo, o il tempo distrugga i loro monumenti, la memoria delle virtù e de’ monumenti vive immortale negli scrittori e si rianima negli ingegni che coltivano le Muse”. Il Leopardi invece abbatte il mito dell’immortalità e fa dire alla Moda: “io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi… ho levata via quest’usanza di cercare l’immortalità” e insiste sulla fragilità passeggera degli usi e costumi dominati da quella che Lucrezio chiamava la mors immortalis (De rerum natura, III, 869). Se, come dice Agostino, noi siamo la nostra memoria, essere nemici della memoria significa essere ostili verso l’uomo nella sua essenza più profonda. Scrive Agostino nel X libro (capitolo XVI) delle Confessioni: Magna vis est memoriae, nescio quid horrendum, deus meus, profunda et infinita multiplicitas: et hoc animus est, et hoc ipse sum (grande è il potere della memoria: un non so che di terrificante, o mio Dio, un complesso profondo e infinito: e tutto ciò è lo spirito, e tutto ciò sono io). “La memoria è importante – scrive il filosofo Mauro Bonazzi – perché è grazie a lei che definiamo la nostra identità, acquistando consapevolezza di noi stessi. Selezionando, lasciando cadere, conservando, la memoria dà unità a quell’ente mutevole, e potenzialmente infinito (perché i nostri ricordi sono inesauribili) che noi siamo. Ci permette di raccontare la nostra storia e ci dà una durata”.
Al richiamo lucreziano sulla morte si accompagna la meditazione del poeta sul tema biblico della vanitas vanitatum che in tal modo viene declinato in una chiave nuova e moderna. L’invenzione leopardiana fa della Moda un vero e proprio doppio della Morte, l’una dal volto funereo e l’altra dall’aspetto ilare e scintillante, due facce tragiche della stessa medaglia. Leopardi è forse uno dei primi in Europa a cogliere l’importanza fondamentale che la moda stava acquistando nella società moderna, la sua straordinaria potenza pervasiva, che gli avrebbe consentito di fondare un vero e proprio impero dell’effimero. Il poeta insiste sulla «potenza della moda», capace di estendere il suo potere ben al di là del campo del vestiario femminile. Il potere della moda è tale che essa finisce per diventare l’incarnazione più emblematica della modernità, della sua decadenza rispetto al mondo antico. Non mancano riferimenti, nelle parole della Moda che obbliga gli uomini a “mille fatiche e a mille disagi”, di grande attualità che richiamano le mode odierne giovanili dei piercing e dei tatuaggi (“Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi che io fo che essi v’improntino per bellezza”). Per Leopardi criticare la moda significa anche e soprattutto condannare la modernità nel suo complesso: ed è per questo che, contrariamente a quanto è stato sostenuto da alcuni critici, il Dialogo della Moda e della Morte non è un testo marginale, ma si riallaccia ad una catena di prose e di liriche, oltre che a un grande numero di meditazioni zibaldoniane, di impronta antimoderna. La modernità infatti, secondo Leopardi, non conduce verso i paradisi del progresso, ma tende verso la morte, della quale la moda è la più potente e fedele alleata. Tra gli ambiti sottoposti al dominio della moda vi è anche la letteratura e, più in generale, la cultura. Leopardi prende di mira una cultura di consumo, destinata a morire nella brevità del tempo. Del resto, effimera è, più in generale, la natura di ogni fenomeno moderno, tant’è che la Fama è, per Leopardi, una mera illusione e, nello Zibaldone, il destino dei libri moderni è paragonato a quello «degl’insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni» (Zib. 4270, 2 aprile 1827). Ogni fede nella gloria postuma viene qui radicalmente demolita. La morte, ai tempi dell’impero della moda, non lascia assolutamente niente dietro di sé.