La montagna dell’andare – Federica Maria D’Amato

Non si finisce mai di scalare la montagna, difatti, come dice l’autrice, ci si può solo mettere al suo fianco. Ciò che cerca di compiere Federica Maria D’Amato nel suo La montagna dell’andare (Ianieri edizioni, 2023), silloge tanto preziosa quanto acuta, è quello di non porre nessun tipo di limite al flusso generante della vita. Nell’andare noi attraversiamo tante stagioni, attimi, sentimenti. A ogni passo in avanti, lasciamo cadere alle spalle parti infinitesimali di noi stessi, per scoprirci sempre più esperti e consapevoli del nostro cammino.

«Ogni giorno di qui è l’ora eterna / senza cronaca, musica distante / da quando a vent’anni gridasti / per la prima volta amore».

I versi della D’Amato hanno quel sapore malinconico dell’eterno. Capace di fotografare a parole tutte quelle situazioni possibili solo se osservate con attenzione. Le poesie d’amore sono dedicate alla figura di Adriana, sua madre. Ma Federica ama con ogni parte del suo corpo le strade, le piazze, i giochi e i rumori del suo paese. Ama i suoi nipoti, la gioia di andarli a trovare. Ama la poesia, soprattutto.

«Dopo gli anni inizi le domande / su quel restare degli alberi / in un posto per millenni / quando duri meno, / molto meno / d’una vita».

Questo il punto più alto che Federica cerca di raggiungere ponendosi domande. Quanta grandezza esiste nel mondo a confronto della breve esistenza che siamo chiamati a vivere?

Eppure, la bellezza è nella foglia, nei «pugni stretti intorno alla croce», nel viaggio stesso.

Siano allora benedette «le spine, i cardi, l’erba selvaggia / delle americhe».

Siano benedette «le stelle dentro alle toppe dei poveri / e le anime che gemmano di piume […] i solitari che nella sera piangono il gelo».

Il linguaggio di quest’autrice è potente tanto quanto la sua intensa passione nell’esserci. Importante, difatti, è il dichiararsi presente con tutte le sfumature possibili. Poter dire «Eccomi. Io ci sono», guardando dritto negli occhi dell’altro.

Patrizia Baglione

 
 
 
 
Quante parole per dire
vento albero cielo novembre
e invece sarebbe solo domandare
tu che fai, autunno, che porti?
Senza risposta,
ma solo quel pensare del bambino
che per la prima volta cresce
in quattro parole:
 
Caro diario,
sono guarito

 
 
 
 
C’era la montagna dell’andare
oltre la linea fissa del restare
e se tu eri stata una morte
io lanciavo nel deserto
della mia propria vita
la moneta del vedersi
con la caduta più forte della croce
sul verso già deciso.
 
Era nella seconda persona
che riposava la prima.
 
 
 
 
Avrei voluto la mano nell’acqua
quando l’amore taglia i deserti
verso la fonte della bevuta.
Ma tu non mi volevi
correndo forte la sete
verso il pensarci lontano, dentro
al pugno chiuso della tua mano.
Così chiuso da imparare
che il gioco era questo:
incontrarsi
solo per lasciarsi andare.