Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tint : queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza ;
portami il girasole impazzito di luce.
Portami il girasole, una delle poesie più celebri della raccolta montaliana Ossi di seppia, insiste sulla luminosità di un fiore connotato da una solida tradizione iconografica, che una comune narrazione fa risalire alla Clizia protagonista di uno dei più avvincenti racconti di metamorfosi ovidiane.
Eppure, la fortuna letteraria e pittorica del girasole è molto più complessa di quanto si possa immaginare.
Nelle Metamorfosi di Ovidio, Clizia è un’Oceanina amata dal Sole finché il dio non si innamora perdutamente della sorella Leucotoe . Non ricambiato, la costringe a subire l’amore, e Clizia non può che assistere, straziata, al tradimento. Non perdona, allora, l’incolpevole sorella e decide di vendicarsi, svelando l’amplesso al padre Oceano. La punizione giunge impietosa: nonostante la povera Leucotoe giuri sulla propria innocenza e invochi pietà, viene sepolta viva. Vinto dalla disperazione, il dio Sole interviene: non potendo salvare la sua giovane amante, la trasforma in incenso: il suo profumo sarebbe durato per sempre A Clizia, invece, riserva tutto il suo più profondo disprezzo: mai più l’avrebbe amata, mai l’avrebbe perdonata. Ma lei non si arrende al rifiuto: continua, notte e giorno, a fissarlo fino ad estenuarsi del tutto, e a divenire ella stessa parte della terra su cui si abbandona, mutandosi nel fiore dell’eliotropio. Il suo sentire, inve#ce, resta immutato: Clizia, “colei che si china”, contemplerà l’astro per il resto dei suoi giorni, giorni vissuti nelle sembianze di un fiore, esangue nelle foglie, radicato al suolo, teso fino ad un pallore estremo e colorato di un viola intenso su quel che resta del suo viso (Met. iv 234-270). Il fiore dell’eliotropio, in una delle sue numerose varianti, sarà, poi, menzionato da Plinio il Vecchio nella Naturalis historia, in cui se ne indicano la varie specie allora conosciute, le proprietà, le capacità terapeutiche e gli utilizzi possibili nell’estrazione del colore, di una tonalità vicina alla porpora, tra il rosso e il viola. Né Ovidio né Plinio, naturalmente, potevano descrivere un girasole, come noi intendiamo questo tipo di fiore, dal momento che esso resta sconosciuto in Europa fino alla scoperta dell’America; eppure, in un preciso momento storico, cioè tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, artisti e volgarizzatori di Ovidio iniziarono a rappresentare la trasformazione di Clizia proprio in un girasole.
Tra il 1636 e il 1638, grazie ad una intuizione di Rubens, la tragedia di Clizia guadagna per la prima volta un ruolo di primo piano in ambito pittorico, diventando uno dei cinquantanove soggetti mitologici che l’artista fiammingo realizza per il Cardinal infante Ferdinando d’Asburgo, fratello di Filippo IV, re di Spagna. In seguito suscita l’attenzione di altri artisti e inizia a imporsi nella produzione artistica del tempo: la ninfa diventa protagonista della vicenda, rubando la scena alla sorella Leucotoe, e conserva come suo tratto caratteristico lo sguardo fisso verso il sole. Accanto a lei, però, o sul suo stesso corpo, la presenza costante di un girasole: non più, dunque, quell’herba girasole, con le caratteristiche fisiologiche e cromatiche indicate nei versi ovidiani e nella trattazione pliniana, ma il girasole di colore giallo e dal lungo stelo.
Ed è proprio dall’ambigua contemplazione dell’atteggiamento di Clizia che deriva la variante montaliana della metamorfosi, che si manifesta nella richiesta del dono del girasole impazzito di luce, capace di recare alla terra riarsa l’elemento salvifico e vitale. Il riferimento si svela, ancora più chiaramente, nella sezione Silvae della raccolta La bufera e altro, dove Montale proprio a Clizia dedica altre poesie. Forse la suggestione più notevole e più vicina al testo ovidiano si legge in Primavera hitleriana, dove dalle mani di lei nascono gli eliotropi, mentre si estenua un rapporto destinato a risolversi, ancora una volta, tragicamente (vv. 20-37):
Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a san Giovanni che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio… Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte ! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbacini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti.
In copertina: “Clytie” di Giulio Cartari (1670-1680)
Annotazioni redazionali di Elisa Saviani: Si tratta del restauro di una statua antica realizzato da Giulio Cartari, seguace del Bernini, su commissione della regina Cristina di Svezia, per la sua collezione di pezzi antichi, allora conservata in Palazzo Riario, in Via della Lungara, sua residenza a Roma. L’idea di restauro diffusa nel Seicento non rispondeva ancora a dei criteri di scientificità: l’artista che eseguiva il restauro, inteso come rifacimento dei pezzi mancanti dell’opera, non aveva come obiettivo principale la ricostruzione fedele dell’originale classico, egli si proponeva, piuttosto, di realizzare un concetto antico, cercando di imitare lo stile classico, anche se poi la tipologia classica poteva risultare trasformata dagli influssi dell’arte a lui contemporanea. Perciò, Cartari, avendo a disposizione la parte inferiore del corpo di una figura seduta su di un fianco con le gambe piegate di lato, realizzò il busto nudo di una fanciulla con i capelli sciolti sulle spalle, il capo rivolto all’indietro e lo sguardo al cielo, poggiante sul braccio destro, le cui dita della mano avevano l’aspetto di radici. L’artista scelse, quindi, di servirsi del pezzo antico per rappresentare una figura mitologica, Clizia, fondendo il momento della contemplazione disperata dell’amato Apollo nel cielo con quello della sua metamorfosi. Egli fece certamente riferimento alla fonte ovidiana del mito (Metamorfosi, IV, 234-237; 254-270): infatti, come narra l’autore latino, essendo stata allontanata da Apollo per aver causato la morte della sua amata Leucòtoe, la ninfa è raffigurata seduta a terra, con la parte superiore del busto girata e con la testa rivolta verso l’alto, sostenendosi sulla mano destra poggiata a terra (mentre il braccio e la mano sinistra dovevano essere sollevati sulla fronte a proteggersi gli occhi dal fulgore dell’astro, o in atto di sottomissione all’amato dio). Tuttavia, avendo trascorso la maggior parte del suo tempo in contemplazione di Apollo, non preoccupandosi del cibo, e quindi deperendo, Clizia sta iniziando qui a trasformarsi in un vegetale, o meglio in quel fiore che segue anch’esso il movimento del sole nel cielo durante il giorno, il girasole. L’intento del Cartari, dunque, era di proporre una figura classica, e tuttavia, sebbene la provenienza del frammento originale sia sconosciuta, è possibile affermare, con quasi assoluta certezza, che il soggetto della statua antica non fosse il mito di Clizia, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, giacché sino ad ora almeno non si conoscono rappresentazioni della ninfa nell’arte classica. L’artista, quindi, dovette compiere qui un’operazione arbitraria, ed ispirato dalla posizione delle gambe del frammento antico, scelse di “mettere in figura” il mito di Clizia, probabilmente anche per influsso dell’arte a lui contemporanea, e precisamente del dipinto di Poussin il Regno di Flora, che raffigurava Clizia in un atteggiamento analogo. La ninfa anche in quest’opera, infatti, è a terra girata a guardare in cielo il carro di Apollo, e proprio il suo ripararsi gli occhi con la mano sinistra sulla fronte ha fatto ipotizzare che anche il braccio e la mano sinistra della Clizia del Cartari potessero essere in quella posizione. Tuttavia, mentre sembra che nell’opera di Poussin non vi sia alcun accenno alla metamorfosi di Clizia in girasole, risulta una scelta originale da parte del Cartari fondere il momento della contemplazione con quello della trasformazione in “eliotropio”: le dita della mano destra della statua, infatti, hanno l’aspetto di radici. Ci si è chiesti, però, se, al di là di un semplice influsso iconografico dell’opera di Poussin, alla base della scelta del soggetto vi potesse essere una ragione più complessa, ed, in effetti, alcuni critici hanno voluto collegarla con gli interessi specifici della regina Cristina di Svezia. Infatti, il gesto che si suppone compiuto dalla ninfa con la mano sinistra, poteva essere sia di protezione dalla grande luminosità della divinità in cielo (divinità che secondo l’interpretazione cristiana poteva essere identificata con Dio stesso), oppure poteva essere interpretato come atto di devozione e di sottomissione al dio del Sole. L’emblema dell’eliotropio, in effetti, è stato spesso spiegato come devozione dell’anima umana a Dio, ossia dell’amante verso colui che ama, e tale significato è affine a quello dell’impresa della Fenice, una delle preferite della regina Cristina. Anche l’atto della Fenice di bruciare se stessa in un rogo aveva assunto un significato prevalentemente cristiano di profonda fede nella resurrezione dopo la morte, poiché la Fenice risorgeva dalle proprie ceneri. Una Fenice che brucia se stessa in un rogo, rivolgendosi al Sole alto nel cielo, compariva sulle medaglie della regina Cristina di Svezia, datate fra 1659 e 1665, a simboleggiare appunto la sua devozione. In conclusione il mito di Clizia, interpretato in senso cristiano come sottomissione e devozione verso la divinità, per il restauro del pezzo antico, potrebbe anche esser stato richiesto dalla regina stessa.
Fonte: http://www.iconos.it/le-metamorfosi-di-ovidio/libro-iv/apollo-e-clizia/immagini/05-clizia/