La materia non esiste (La vita felice, 2024) è il libro d’esordio di Marco Colletti, che in realtà si dedica alla poesia da molto tempo, ma che evidentemente ha deciso di attendere e lavorare con pazienza prima di dare alle stampe queste poesie. E che ci sia un lavoro, nel senso artigianale della parola, si nota subito dall’intensità del testo, dalla ricchezza del vocabolario, dall’uso sapiente della metrica, che sottotraccia segna un ritmo pulsante. Ed è il ritmo del pensiero che si confronta con il suo opposto, la materia. Non a caso il libro è diviso in tre sezioni nettamente distinte. E la prima si intitola proprio “Mens”, che sta per “intelletto”, ovvero ciò cui sempre ci affidiamo per istinto, quando ci avventuriamo a conoscere il mondo. Ma, si sa, l’impatto con la materia è durissimo. E forse per questo, già da questa sezione è evidente la tentazione che affascina Colletti. Non tanto sfondare la crosta del materiale, e neppure attraversarlo, semmai permearlo, starci dentro e fuori, contemporaneamente. Sbriciolarne la consistenza atomica e molecolare come una sfida di libertà. Ma quello che interessa non è propriamente la libertà del corpo e neppure del semplice intelletto. E infatti, nella seconda sezione “Cor”, è come se ci si spingesse un poco avanti, verso un’altra percezione del reale. Stavolta si tratta sempre di toccare qualcosa di fisico, ma scegliendo quel che ci sta a cuore. E infatti il tangibile coincide con il sentimento più audace e profondo, l’amore, che diventa reale nell’incontro con una figura femminile i cui contorni però sembrano quasi sfumare. Non è un caso allora se la terza sezione ha un che di onirico, o quasi mistico. A prescindere dall’abitudine del corpo, la percezione, diventa dimensione alternativa della conoscenza e passa attraverso la smaterializzazione che non è dissipazione della realtà, ma anzi il contrario, cioè starci talmente dentro, da non distinguersi più nel tutto. La materia esiste, lo sa bene Marco Colletti, e il bello non è negarla, ma stare tra gli atomi che la compongono, abbandonati al puro sentire, così come forse soltanto gli angeli.
Nicola Bultrini
Mi piace pensare che la materia
non esista. Poter camminare
attraversando la gente, i loro corpi
ricami del nulla, come se nessuno
fosse veramente qualcuno.
C’è in questo sogno un delirio,
che favoleggio essere scientifico:
il poter vedere attraverso il vuoto
degli atomi. Tutto diventa
pesantemente trasparente.
La massa del nulla nella trama
dei rami, che al tramonto svela
l’ocra dei palazzi romani per svelare
a loro volta case, gesti, vite
e infine il cielo che li colora.
E mi accorgo che li dipinge
di puro niente. Mentre sul Tevere
il sole arde ancora lontano,
vedo spegnersi i suoi dardi
nel blu degli spazi e oltrepassarli
il guscio dell’atmosfera.
Ancora oltre, finché i sensi ormai
abbandonati mi lasciano lieve,
come una statua alata, in bilico
sul ciglio di un ponte. Forse è
questa la natura anche degli angeli.
Il balbettio di un orologio ci ha svegliati
di sorpresa. Siamo dentro un’aura
di peduncoli impazziti, pollini acuti,
coriandoli sfioriti. Ti incorono con le mani
la fronte bagnata. Le mie dita intrecciate
ti stringono i pensieri. Nel mio palmo cavo
rimarrà un lazzo del tuo amore, brivido
segreto del mio canto soffuso.
Nei tuoi occhi c’era la neve
e per un attimo ho creduto
di poterla fermare, di prenderla
in mano. Vederla sciogliere
sul palmo sudato nei miei
pori sottili.
Ascolto il caldo e la sua luce
abbagliante come un lampo,
che inonda tutta la mia mente.
Intrecciato di passivo stupore,
mi abbandono a quella folata
di lattiginosa memoria, i suoi
sguardi sottesi, i volti acuti
e roventi. Sul balcone, un affaccio
che cerca l’aria e le foglie
si piegano al tatto, morbide
di stanchezza. Tutto si fa molle
e lento liquefatto, quel senso
di sparire che è ora l’appassire.
Un guizzo rosato mi accende
le guance e inizio a bruciare
nel sole vorace di umane sembianze.
Solo le stelle ci salveranno.
Le guardo anche di giorno
fissando l’azzurro che le copre
nel silenzio assordato dal mondo.
E mi astraggo nell’astralità
della loro incommensurabile
lontananza, di quelle luci che
giungono a noi, molte già morte.
Fantasmi sono, che regalano
sogni e voli della mente, l’unica
salvezza che vedo oltre le nubi.
Le sento toccarmeli gli occhi
e danzare nelle mie pupille,
i valzer delle galassie e le loro
musiche celesti. Arcane, a quel
suono tendo le dita e distendo
il corpo nel libro dell’immaginazione.
Passi mi avanzano verso quelle
morte sfere e tacito mi abbraccio
nel morbido morso di un buco nero.