La gioia elementare – Ivan Fedeli

L’ultima opera di Ivan Fedeli (La gioia elementare, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2025, prefazione di Cristina Daglio) ha, nel titolo, la visione del mondo che caratterizza l’Autore. Suddivisa in otto capitoli, la silloge presenta quel mondo quotidiano così caro all’Autore, ma con una tensione nuova che lo porta a indagare prima se stesso per poi riflettersi nell’altro, ricavandone (a volte sogno o visione) aspetti dell’anima che lo caratterizzano. Domina anche qui la struttura della monostrofa che fa, come osserva Cristina Daglio in Prefazione, della sua poesia «una sorta di poema epico della sopravvivenza», un racconto orale che ci parla della sua “resistenza” a un mondo “fuori” di cui Fedeli coglie l’opacità e le contraddizioni, per ricondurlo infine a quei valori fondamentali che costituiscono “La gioia elementare”. È quello che si legge nella poesia (Da qui) posta in exergo alla raccolta che ci ricorda il bisogno fondamentale dell’uomo di capire meglio il senso della vita (passato e avvenire) per evitare «che tutto non fugga prima di diventare un nome» fra quelli che sono venuti a mancare o sono scomparsi per sempre.

Non è un caso che la prima sezione si apra con un titolo emblematico: L’arte del trasloco.

Il trasloco è la metafora del cambiamento, della vita che incessantemente muta, si trasforma e ci impone di ricominciare («e resteremo lì senza restare»). Le cose vissute hanno un senso nel ricordo di chi le scompone ad una ad una per collocarle in una scatola dove tutto il nostro mondo sembra chiudersi per sempre, per tornare poi ad aprirsi in una dimensione nuova, tutta da vivere. («Non di noi domani qui ti diranno / ma di noi altrove in qualche luogo d’altri»). È la de-coincidenza di cui parla il filosofo François Jullien, citato da Cristina Daglio in Prefazione, che ci fa notare come per Fedeli questo significhi «l’uscire dall’adeguamento a un sé, dal proprio adattamento a un mondo» per poter veramente esistere.

Ecco allora che si concretizzano i personaggi della realtà quotidiana, così cari a Fedeli, eppure così pieni di vita come tanti che abbiamo conosciuto anche nelle precedenti raccolte. Si veda per esempio la poesia che apre la sezione. Siamo nel bar da Tiziana: è settembre, stesse facce (muratori – pendolari); lo sguardo assente della donna che mentre dà le sigarette guarda fuori le pozzanghere sembra dare vita a questo quotidiano «quasi / restasse intatta ogni cosa ogni cosa / morisse di meno in tal modo». Forse dice il poeta anche «le nostre / parole già andate i silenzi le cose».

E accanto a questa vita fatta di piccole cose quotidiane, di volti abituali, si fa voce a tratti, visibile a volte, «il silenzio del Lambro», «con il suo decoro / di gabbiani tristi» e di povera gente che qui cerca qualcosa da portare a casa la sera. Un mondo di confine delimitato dallo scorrere paziente del fiume che leviga i sassi delimitando gli argini e corre via, come le voci che si sentono lontane dei tram e si perdono come un’eco «senza appartenere, restare». Simile al fiume che va verso la foce e solo traccia un cammino nel suo perenne fluire: «Così la vita, meravigliosamente» dice il poeta. La parola “Meraviglia” è centrale nella poetica di Fedeli e sta a indicare tutta la bellezza che si cela dietro il quotidiano, dietro il grigiore del giorni, con una scoperta che solo il poeta sa cogliere sia che si tratti di un fiore di geranio che si apre al sole, sia che si tratti di orti che nascono ai margini di un prato di periferia, fra lattine e bambini che giocano al calcio, alla ricerca di un’immaginaria porta (la felicità?). «Cose queste / da terre basse e ortiche di fine / città finché lo scorrere degli argini / leviga tenendo, unisce separando».

«E la vita va / per consuetudine definizione» recita la poesia che apre la terza sezione, Gli inadatti, quella dove è possibile ritrovare una galleria di personaggi cari a Fedeli, ognuno scavato in profondità fino a farne emergere realtà e desiderio. Così è per esempio dell’Andromaca della Barona mentre aspetta il ritorno del Beppe dalla fabbrica. Nella sua solitudine si abbraccia ai ricordi e sogna una sera diversa, poi «Chiude gli occhi in una dolcezza sua / e sorride quasi fosse un’idea / sbattendo qua e là la tovaglia a quadri, / quella malinconia di molliche / che cadono a terra già inesorabili».

E ancora «L’uomo della panchina [che] toglie forfora / e pensieri dalla giacca guardando / il cielo». E quello che chiamano Beppe che ride e la notte sogna Bartali e Coppi, poi corre a Milano all’Idroscalo come fosse “un mare che esiste davvero”: «Cose di un mondo da poveri / – dice il poeta – queste che fanno epica a parte dopo / un gratta da cinque comprato e il solito / via vai sulla Nord…» o quel «principe dei poveri» che sarebbe piaciuto a Jannacci, che chiamano Gino, forse un’ombra che torna nel sonno «quando tu / lo immagini sorridere in un parco / e incidere qua e là nelle panchine / di legno furtive parole d’amore».

Potrebbe sembrare “una terra barbara” – recita la poesia che chiude la sezione – dove i tram vanno e vengono rompendo il silenzio: la zingara che conta i quattro spiccioli raccolti o il giovane francese al bar rimandano all’idea di un incompiuto, di un divenire che forse darà un senso alla vita: «Tutto già altrove / scivolato via per sempre mentre / qualche voce riecheggia e sul Lambro / posano i gabbiani di città, sbeccano / muovendo le ali, inesorabilmente».

La sezione che ha per titolo Felicità abusive pone il tema della felicità che forse non esiste, che appare all’improvviso e poi scompare: «Dunque anche tu qui felicità io e te / a rincorrerci mai troppo vicini / mai del tutto lontani certo fuori / tempo» dice il poeta, come se il senso vero di questa apparizione consistesse proprio nell’attimo in cui la percepisci.

«Fuori tempo noi?» dice il poeta nella poesia che apre la sezione ed è qui, nella felicità incipiente di un autunno che avanza, quando gli anni cominciano a pesare che si avverte tutta l’importanza che ha la poesia per Fedeli: «Mi dici tu che va bene che è l’età / la nostra delle parole ma scriverle / è la pena quasi tutto facesse / capo a un senso che fugge e non lo sai».

«Abbastanza felici da non esserlo?»: nell’ossimoro permane questo senso di perdita immediata che appartiene alla felicità, ma, forse, va saputa accettare solo «a piccole dosi come un sogno / all’alba». Strana cosa la vita, dice Fedeli, la si cerca, ma non sappiamo di lei se non per un assurdo conteggio di chi manca o di chi torna ma non ha volto e può rivivere soltanto nell’immaginazione e nel ricordo. Solo la donna amata, protagonista di questo soliloquio sulla felicità, può dare un senso alla vita, scandendo il ritmo delle stagioni, delle cose da fare o pensando ai figli, e ai mobili da sistemare. La felicità? Rimane solo per alcune occasioni, per il resto: «Niente di più qui / solo un’aria da trasloco e il silenzio / delle stanze vuote» dove risuonano i passi e i muri nella loro assurda fissità sembrano anticipare l’addio.

È questa la vita inconsapevole di tanti volti che appaiono e scompaiono nei loro gesti abituali, nel loro silenzio e nessuno sa di loro, non ne conosce i sogni o le aspettative, in una resistenza muta e malinconica come quella di Valentina o come quella del Gandula che «tenta di vivere / esistendo e questo basta forse…» dice il poeta. Domina il senso dell’attesa, mentre tutto è in divenire e si trasforma, e il tempo scorre portando con sé «quella pena di durare» di cui parla Luzi e che appartiene a tutti quelli che sono consapevoli che questo è il vero senso della vita.

E in questa pena rientrano anche gli affetti più intimi, come quelli che legano il padre al figlio, cui Fedeli dedica una stupenda sezione che ha per titolo Novecento, dove predominano amore e visione della vita, con l’attenzione ai valori da crescere e conservare. «Darti altro più non ho / io se non la pazienza di un amore / o il senso di un’attesa…», ma tu, dice il poeta, goditi la gioia della tua giovinezza e la speranza di un amore da condividere su «panchine fatte di promesse / e baci…», ma con lo sguardo al mondo, così diverso, dice, da quello della mia giovinezza! «Così di generazioni il senso / e un mondo che si arrende invecchia scade / figlio io che divento padre, figlio / mio adesso che ti sono padre».

Il senso di questa visione torna anche negli Auspicia che chiudono la raccolta con la preghiera che anche se tutto passa e la memoria può farci perdere il senso della vita ormai trascorsa, uno sguardo al cielo con le nuvole, come «gli àuguri un tempo / a carpire il volo alto degli uccelli», ti ricorderà «che si rimane comunque / nonostante».

Fernanda Caprilli

 
 
(Da qui)
 
Abusiva anche tu vita mia, tu
La luna e i falò sul letto le foto
in cornice il comò kitsch dei suoceri
in noce. Come la felicità
ci pensi come l’uomo in cappotto
che fuma ridendo del mondo
o la ragazza sul biondo col cane
mentre chiama l’ascensore ama chiede
di Dio se ha dubbi talvolta lui pure.
E te ne vai così senza premura
lo sguardo la pioggia il cielo novembre
vorresti un silenzio più senso più
tempo capire dei giorni passati
dei giorni a venire contarli tenerli
in parte almeno che tutto non fugga.

 
Da qui ti scrivo io da questa terra
di passaggio prima di finire anch’io
in un significato d’altri o andare
in qualche resoconto bimestrale
di chi manca da un po’, di chi scompare.

 
 
 
 
Non di noi domani qui ti diranno
ma di noi altrove in qualche luogo d’altri
e nostro come fossero le nuvole
le stesse nuvole di sempre e gli alberi
le case tutto fedele a sé tutto
già dato vissuto e da vivere tu
annoda il fazzoletto trova forma
per le cose a ricordarle ancora darle
alle parole così tue così mie
da tenerle care non sciuparne
nome identità storia. Torneremo
dunque agli orecchini a penne e anelli
che dimentichi chissà nulla andrà
perduto neanche il gatto del vicino
la tazza azzurra del latte il silenzio.
E resteremo lì senza restare.
 
 
 
 
Tu lo conosci dalle scarpe grosse
il Bresaola mentre canta Il cielo
in una stanza dopo un rosso di troppo.
Ha baffi alla Gino Paoli e il passo
zoppo da città quando sa d’estate
il cielo di Lambrate anche per lui
e chiudono i bar lasciando il silenzio
delle sedie in plastica a fare
la guardia alla notte. Sorride allora
in una piorrea nostalgica e
scivola via come una nuvola.
Lo chiamano qui fischiando a due dita
così con i cani con chi non ha nome
e pensa alla vita a starci per bene
aggiustando i capelli un po’ radi
e i ricordi lasciati tra forfora e
ombrelli. Visita i sogni ogni tanto
o ti bussa alla porta scappando
e sai che c’è stato una volta almeno
a suo modo accade così alle rondini
in balcone a qualche verso scordato
di una poesia al liceo. Cose
belle e feroci mi dici ammiccando
che danno esistenza, girano intorno.
 
 
 
 
Fuori tempo noi? Te ne accorgi forse
dai silenzi degli alberi la forza
tua anche mia di pensarli alla radice
come fosse cosa comune crescere
essere fusto o fronda a seconda
del vento flettendo parte di noi
fino all’intero alla composizione
di parti in comune. Vale questo
in questi giorni che portano
autunno e una felicità incipiente
si maschera qua e là nella lentezza
delle strade dopo un saluto al bar
e le borse che pesano e gli anni.
Mi dici tu che va bene che è l’età
la nostra delle parole ma scriverle
è la pena quasi tutto facesse
capo a un senso che fugge e non lo sai.
Vivi dunque di una vita piena
qui a ridosso di una nebbia in ottobre
o nella fretta operosa di chi
si dà nell’orizzonte poi scompare.

 
 
 
 
Certo le vorremo le previsioni
meteo col sole l’oroscopo buono
una mano di carte con primiera.
Ci diremo di sì, va tutto bene
anche il silenzio del cappotto appeso
la teiera nuova il letto da fare.
Le cose sono le cose a rimanere
proprio mentre ce ne andiamo noi gli altri
senza sapere chi torna chi saluta
o chiede quale giorno viene che
sarà domani dei gerani fuori
se resisteranno al gelo fioriranno
ancora. Così il futuro che ti lascio
che tu lasci così i tuoi occhi al cielo
come nello sguardo gli àuguri un tempo
a carpire il volo alto degli uccelli.