La gioia di rivederle, dopo, in volo – Francesco Terracciano

La gioia di rivederle, dopo, in volo - Francesco Terraciano

foto di Dino Ignani

 
 
 
 
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In nessun altro posto così tanti
sfasciacarrozze, tanti cimiteri.
Quelli più grandi sopra la collina,
i piccoli nascosti tra le curve
di qualche strada, o chiusi tra i palazzi.
Alcuni vogliono spostarli, i nuovi
insediamenti reclamano spazio.
Vedi come trattengono la terra
stanca, affollata, quelle reti gonfie
vedi la loro fatica di stare?
Carcasse, gusci vuoti. Messi in fila
o l’uno sopra l’altro. Quando stacchi
una portiera viene fuori il sangue
dai giunti. Se riaccosti le ossa lente
ad uno scheletro ti cade addosso
la ruggine, il metallo sopra i piedi.
Simul stabunt vel simul cadent, ecco
la frase che li dice. È la rovina
che è sparsa qui. La morte c’entra il giusto,
un giorno appena. Il resto è colpa nostra.
 
 
 
 
 
 
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Ci credi? Mette sempre gambe e braccia
fuori dai ferri del balcone. Resta
per ore intere a guardare di sotto,
fa segni, parla con qualunque cosa.
 
Mi viene un colpo ogni volta che scopro
che da una stanza vicina è passata
tra i vetri aperti. E se le dico “Elisa
togliti subito, è pericoloso”
 
si volta e ride, ma mi prende in giro.
 
 
 
 
 
 
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Passaci piano il dito, un poco. Le ali
delle farfalle che vedi hanno sopra
una polvere d’oro: se la togli
dopo non riusciranno più a volare.
 
Così suo padre. Con le mani aperte
piccole, radunava i grani a terra
li sollevava tra i vetri. Credeva
a quella cosa ciecamente, Alberto
 
e quanto niente rimetteva a posto
la gioia di rivederle, dopo, in volo.
 
(Francesco Terracciano, MCM, Oèdipus, 2021)
 
 

Si potrebbe sostenere che ogni poesia autentica, anche quando lo dissimula con perfetta incoscienza, sia poesia d’amore, in quanto è incarnazione essenziale di uno slancio viscerale nei confronti di qualcosa, o qualcuno, che giustifichi e legittimi l’atto della nominazione; questi versi di Francesco Terracciano, nonostante l’apparenza superficiale di un canto della rovina, della perdita e della dannazione – riferita in particolar modo a un territorio, e alla generazione che vi è precipitata in quel preciso momento storico – confermerebbero questa ipotesi.
Pochi versi non rendono l’idea d’insieme d’un’opera che fa della narrazione e delle immagini uno dei suoi punti forti, al punto che è una delle poche raccolte di poesia lette negli ultimi anni da cui si potrebbe trarre un adattamento televisivo, o cinematografico; riescono, però, a rendere l’intuizione che Terracciano non intende consegnare alla dimenticanza il contrasto del disfacimento, il vivere nel presentimento della caduta, propria e di un’intera generazione, di tutto un territorio, tra rassegnazione e resistenza.

È caratteristica di molta poesia del secondo novecento, fino a quella di diversi autori contemporanei, il legame con il luogo, come segno identitario ma anche tentativo di demarcazione culturale, disperata (talvolta) insistenza su un vincolo che appare messo in discussione dal proliferare della società liquida, massificata, virtuale. Per converso, si è sviluppata una serie di autori che ha fatto dell’assenza del senso del luogo uno dei suoi punti forti, attraverso una o più contaminazioni culturali; non è il caso di questi testi.

Il primo di essi affronta proprio il legame tra individuo e territorio, vissuto come responsabilità e sconfitta: l’accostamento tra cimiteri e sfasciacarrozze invita l’immaginario a soffermarsi su quello tra persona e oggetto, sulla mortificazione dell’individuo nel momento della resa: “Carcasse, gusci vuoti. Messi in fila / o l’uno sopra l’altro”, nella loro “fatica di stare” che rovescia l’azione della terra (“Vedi come trattengono la terra / stanca …?”). L’immagine efficace prosegue nel parallelismo tra sangue e ruggine, ossa e metallo: la sconfitta è collettiva, e abbraccia luoghi, individui e cose: “Simul stabunt vel simul cadent, ecco / la frase che li dice. È la rovina / che è sparsa qui.”. Ma nella conclusione c’è lo sguardo critico di chi non intende puntare il dito e perdersi in una definitiva autocommiserazione: “La morte c’entra il giusto … il resto è colpa nostra”, in una, contestuale, assunzione di identità comune.

Il secondo testo ci restituisce uno dei molti quadretti presenti nella raccolta, quello di uno dei “personaggi” che va ad assumere valore simbolico, nel corpo della narrazione, donando dinamicità al testo: in particolare qui è presente il confronto tra timore del pericolo e incoscienza innocente, quella in grado di affrontare l’esistenza con l’ingenuità della scoperta, resa nel “guardare di sotto” in cui “fa segni, parla con qualunque cosa”. La voce dell’io del testo è quella dell’età adulta, che ribadisce la presenza del rischio, in quel “togliti subito, è pericoloso” che la giovinezza ignora, e “prende in giro”, con quel ridere che sa di un affetto terribile.

Se questo squarcio già indica un punto di fuga nelle nuove generazioni, ancora non inchiodate dalla resa e dal timore, il testo finale consente un’ipotesi di senso e di salvezza anche per chi è stato inarcato dal dolore e la rovina: nel senso della cura verso le cose minime, verso ogni sofferenza, si tratteggia una gioia consapevole, altruista, pulita. “Con le mani aperte, / piccole”, ecco dunque l’immagine del padre, che sa radunare e credere ciecamente in tutto il niente che “rimetteva a posto”, per l’esclusiva contentezza di rivedere “in volo” quelle farfalle a cui basta un tocco indelicato per perdere ogni possibilità di guarigione; ecco dunque la cura e lo slancio verso quel luogo della rovina e verso i suoi figli, verso il proprio tempo e i propri fratelli, ecco che il canto della perdita si fa liturgia di appartenenza e degli affetti.

Mario Famularo