La dimora insonne – Daniela Pericone

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La dimora insonne, Daniela Pericone (Moretti&Vitali 2020, postfazione di Alessandro Quattrone).

 

La poesia è una questione prima di tutto di linguaggio. Questo, che può ben essere considerato un adagio essenziale per ogni poeta e un avvertimento per pensarsi tale, nasconde al suo interno un’altra verità che ogni buon autore conosce (e che non di rado nelle mie piccole recensioni riporto e ribadisco): il linguaggio è un contenuto, una lente d’ingrandimento sulla realtà.

Ma la realtà non può essere di tutti, o meglio lo è necessariamente ma la comprensione e la dizione di essa si inserisce nell’ambito di quella tirannia della letteratura che vuole la poesia assolutamente non democratica.

Alcuni giorni fa ho scritto un articolo a partire da un pezzo uscito su Davide Brullo (qui) e nel medesimo giorno ho voluto recensire il bel libro di Fabrizio Bregoli (qui, tra l’altro mi dicono che io e Fabrizio siamo stati inseriti in un prestigiosissimo lavoro critico che fotografa la poesia di parte del secondo novecento, e che sarà edito dalla Società Editrice Fiorentina a febbraio del prossimo anno). Mi permetto ora di continuare brevemente quello che poi in rete è diventato un discorso aperto sui vari social.

C’è chi ha accusato la mancanza di coraggio della critica, chi la vanità dei presunti poeti, chi ha criticato l’assunto per cui il poeta deve avere una posizione morale (cosa sulla quale mi sto interrogando ancora anch’io). È certo però che oggi viviamo una situazione che rasenta il ridicolo: mancano i grandi poeti? Assolutamente no, semplicemente non abbiamo più la possibilità di vederli.

Perché? Facciamo un passo indietro, ricordiamo il festival di Castelporziano ancora una volta. 40 metri di palco su cui tutti vollero salire per avere voce. Sono cambiate le cose oggi?

Tale bisogno a tutti i costi (questa purtroppo è una cosa che ho imparato bene come Samuele Editore) e l’effettiva possibilità di averla nel rumore di sottofondo della cultura letteraria italiana ha portato a un brusio dove tutto si sente e nulla si capisce. E soprattutto dove l’eccellenza viene negata e il metro di misura viene abbassato talmente tanto da permettere anche a voci mediocri di potersi dire sopra l’asticella.

In buona sostanza per essere tutti poeti si è cancellata la grandezza della poesia. Non dalla realtà, ma dall’orizzonte dell’osservazione. E si è dimenticato il linguaggio non esposto, non gridato, si è dimenticato l’isolamento del colore per un mondo di grigi dove tutti si sentono grigi, ma alcuni sono più grigi degli altri (e perdonate se torno ancora a questa citazione, che mi è sempre più cara). Abbiamo dimenticato che il linguaggio è il focus, e questo focus non è di tutti perché si muove su più fronti contemporaneamente: consapevolezza, tecnica, umiltà.

In sintesi: unicità. E l’unicità non può essere di tutti, come il linguaggio, altrimenti si arriva a ciò che viviamo oggi: abbattimento del metro di misura a favore di una democratica quanto finta collettività.

 

*

 

Detto questo lascio da parte, e chiedo scusa per la lunga digressione, le opinioni personali sulla poesia per tornare a quello che è l’oggetto di questa mia recensione, e che ha comunque molto di quanto (in senso decisamente positivo) ho appena argomentato. La dimora insonne di Daniela Pericone esce quest’anno per Moretti&Vitali e parla fin dalle primissime pagine di lingua e linguaggio, ma anche di silenzio, pacatezza, piccole cose e desiderio.

 

La lingua è uno sciame di voci venute dall’infanzia e parole accumulate nelle letture solitarie. Eppure non basta il ricordo, né la folla dei libri, quel che conta è l’inclinazione dei sensi, il daimon di ognuno.

 

Con questa annotazione in prosa inizia un’opera che trova la sua unicità nella pacatezza della dizione. Come afferma Alessandro Quattrone in postfazione non si urla nulla ma si dice.

 

La poesia di Daniela Pericone è frutto di una scelta di riservatezza. Non c’è sfolgorio, non ci sono urla nei versi: tutto è al suo posto ma si lascia solo intravedere, come se fosse immerso in una bisbigliante penombra.

 

E ancora Quattrone, puntualmente, sul linguaggio:

 

A Daniela Pericone interessa dunque trasformare la realtà in linguaggio, più che rappresentarla. Se ne serve come occasione e nutrimento, non lasciandola mai così com’è. Non è possibile riconoscere luoghi o eventi precisi nei suoi versi, che mirano a trarre l’universale dal particolare mediante un procedimento che mescola e combina elementi esterni e interiori in maniera spesso sorprendente.

 

Ed è quanto dicevo prima essere la tirannide del linguaggio, il suo imperio. Che altro non è che la capacità di andare oltre l’autore per diventare rappresentazione di una realtà più ampia. Ma cosa fa questa poesia? Qual è il suo ruolo?

 

Un verso è precisa
menzogna, indossa vessilli
che non salvano

 

Nulla. E Daniela Pericone lo comprende bene e lo dice con una consapevolezza matura, umana. La dimora insonne è un libro di piccole cose che raccontano le piccole storie che compongono la realtà senza però eccedere con la realtà stessa. Dove a tratti l’autrice emerge solo come parte del contesto, come realtà essa stessa. Una realtà composta di cenere, di rumori, di silenzi e di solitari.

 

Lambisce gli ori
la lingua salvata, i neri tasti
dell’alba coincidono in musica
e astri – è lì che dimora certezza
di sciogliere in suono
qualunque dolore.
In quel che è distante, perduto
cercare un giaciglio alle notti
è perfezione del buio.

 
 
 
 

La dimora insonne
consegue il suo silenzio
riposano le carte
mansuete – i suoi labirinti
sono roghi di penombra,
preludio d’ultimo
abbaglio, tenebrore.

 

Vi è un’oscurità sottesa, quel tenebrore di cui sopra, ma resta pulviscolare. Un sistema colloidale dove tutto perde i propri confini, la propria definizione, ma si aggruma nel pensiero come abbaglio e bersaglio.

 

Il suono è una linea
curva, scudiscia il buio
ma invincibile
il bersaglio – è calma
che infuria, gli occhi
tracimano tenebra.

 

E c’è il desiderio che altro non è che l’affermazione della propria esistenza.

 

Rinunci a dire
del tempo, smalto
sottile ai giorni e pochi
inganni – l’inverno
è indecidibile, non è furia
né incanto ai cortili.
Forse avrai scampo la sera
nei gesti del riserbo –
se un desiderio assale
o un timore, adàgiati
al mutare, i corpi vegliano
in candori o crepe, inermi
alla caduta – tesi in cristallo
i ricordi. Sfavilla assenza,
al suo splendore
si disorienta il buio.

 
 
 
 

Era nato, aveva dita
minuscole e occhi sgranati
sporgeva dal bordo
del cuscino – l’espressione buffa
da adulto che la sa lunga – scorrevo
sul volto come un desiderio
volevo salvarlo – da chi da cosa
da che spavento? La stanza
era chiara, solo nell’aria
un disappunto a presagire
il salto nel vuoto – d’istinto
la mano scosta il bicchiere
dall’orlo del tavolo. Si vive
da esperti in cadute, senza avviso
o cautela che preservi, il tonfo
è un sasso nello stomaco,
un rimbalzo di uccelli alle pareti
– lo scacco senza eco, non prevista
la replica.

 
 
 
 

Invoco
la prevalenza degli alberi
fortezza che escluda
la soglia – la penombra
è un crepitare di fronde,
radice sotto la pietra
che geme arsura, il desiderio
della pioggia non può
che diventare smanioso.

 
 
 
 

Solo concedi
agli ignari, ai mondani
il similoro – preserva
dei pochi la fiamma
gentile, il desiderio
non esibire.

 
 
 
 

Il vagare assorto
e la sosta ai margini
del giorno, il riserbo incline
all’esitare, la solitudine
che è assillo e desiderio,
la ferita impervia, l’invettiva
muta sul confine – mite fervore
che accomuna, unisce suono
a suono, ripete l’amicizia
dei risvegli, forse a escludere
il male, modesta ricompensa
amaritudine.

 

Il desiderio / non esibire è forse uno dei versi più eclatanti di Daniela Pericone. Che talvolta tange il concetto di buio e lo spiega:

 

Rinunci a dire
del tempo, smalto
sottile ai giorni e pochi
inganni – l’inverno
è indecidibile, non è furia
né incanto ai cortili.
Forse avrai scampo la sera
nei gesti del riserbo –
se un desiderio assale
o un timore, adàgiati
al mutare, i corpi vegliano
in candori o crepe, inermi
alla caduta – tesi in cristallo
i ricordi. Sfavilla assenza,
al suo splendore
si disorienta il buio.

 
 
 
 

Sorvegliare il buio
è non temerlo, dentro gusci
che non tengono
l’occhio scuro non smette
di bruciare – non ha gloria
l’ora invasa dei perduti.
Reclina una parola se sperare
convoca deboli sorrisi,
ingenuità. Ripara solo dire
figlio, che trovi un bene
in sé nella pienezza
– contiamo bicchieri
lasciati a metà, sguardi
prosciugati. Se avessimo
cieli da solcare non esiterei,
chiedi alle ombre, sempre
qualcuno le invoca.

 
 
 
 

Non oltre indugiare
al commiato, radunare
pochi resti, rasura di carte,
sembianti – ritrarsi alle rive.
Un albero una stanza
la saldezza dei monti
che ammansisce lo sguardo
alla neve, ancora trascrivere
il buio, i suoi trasalimenti.
Disporre dell’orma
che non trattiene e fuga
l’agguato dell’ombra,
negare l’istinto
di orfeo.

 
 
 
 

Lambisce gli ori
la lingua salvata, i neri tasti
dell’alba coincidono in musica
e astri – è lì che dimora certezza
di sciogliere in suono
qualunque dolore.
In quel che è distante, perduto
cercare un giaciglio alle notti
è perfezione del buio.

 
 
 
 

Il suono è una linea
curva, scudiscia il buio
ma invincibile
il bersaglio – è calma
che infuria, gli occhi
tracimano tenebra.

 

*

 

Una poesia in bilico ma non in attesa, questa di Daniela Pericone. Con una forte e netta geografia interna di rimandi che fanno eco all’utilizzo importante e consapevole di figure retoriche di suono, di significato e di posizione (come ben spiega Quattrone). Una poesia che si isola ma non si cristallizza, e così facendo si fa rinunciataria della voce stessa.

Ma è nella rinuncia che più si trova l’unicità, la grandezza. In quel da destinare a pochi / forse a nessuno il seme di una vera poesia capace di tenere l’assedio.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
Fragile oriente
perdurare nel segno
– ad altri il traguardo e la prassi
a noi la disutile comparsa.
Fatica del consistere, se nulla
concedi e rinunci a ogni
indulgenza – accogli furie
che non trapelano, fuochi
da destinare a pochi
forse a nessuno. Senza remore
trarsi in disparte, lungamente
e fermo tenere l’assedio.