La deriva del continente – Transeuropa

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La deriva del continente è un libro edito da Transeuropa quest’anno, proprio quest’anno, in questo 2014 che ora sta per finire con tutte le sue righe da tirare e bilanci da stilare. Un libro che non è una semplice raccolta di poesie (molte non sono nemmeno poesie, ma prose) ma un esperimento che sfuma nel laboratorio collettivo di un brainstorming attorno alla Crisi. E in virtù di questo ne fa intravedere il punto di partenza, il punto d’arrivo o di scolo, e il modo di andarci alla deriva. La prima cosa che mi viene quindi da sottolineare di questo riuscitissimo esperimento, oltre la semplice vicinanza con l’Eliot della Terra desolata e il Joyce dell’Ulysses (vicinanza assolutamente non banalizzante) è appunto la saturazione di citazioni più o meno dirette. Una saturazione, una densità di echi che spesso mi ha fatto sorgere un dubbio: ma sono veramente sempre consapevoli questi riferimenti?

Perchè in effetti la grandezza di questo esperimento non è solo la fotografia di un’Europa (in primis) e di un mondo desertificato non tanto nella sua geografia quanto nell’intimo quotidiano delle persone che lo abitano, ma soprattutto lo stretto intrecciarsi che emerge tra le persone (il personaggio emblematico Paterson) e la Crisi stessa. E ancor più nettamente l’affondare di questa Crisi nella storia. Perchè questo dicono le citazioni, i riferimenti, gli echi letterari: la Crisi non è arrivata all’improvviso e non ci ha colti impreparati come pensiamo perchè siamo noi stessi la Crisi, colpevoli e vittime nella medesima identità che si stanno più o meno consciamente preparando da anni a questo passaggio epocale che non vogliamo riconoscere non tanto come un collasso del sistema quanto come un collasso di noi stessi. E di questo i poeti ne hanno parlato ampiamente negli anni, ed è forse per questo che ora tocca ai poeti ricordarlo (assumendo, appunto più o meno consciamente, il peso della storia).

Marco Mantello, curatore del progetto, a questo riguardo in postfazione dice: Un’immensa colpevolizzazione di un fantasma si aggira per l’Europa: ecco cosa. E uno scorrere delle cose che definisce i cicli economici delle persone, gli interessi locali, le importazioni tedesche in surplus che hanno bisogno di salari bassi e inflazione sotto controllo per espandersi ancora nel mondo… Vorsorge: essere previdenti nel lungo periodo, così risponderebbe Paterson, da vero ateo. Riproducendo la stessa mentalità, la stessa Crisi che gli è stata imposta da creditori e credenti. Ecco se Paterson non fosse solo la Grecia, ovvero uno dei più grandi successi della moneta unica, se Paterson non fosse affatto una pace perpetua venuta male, figlia di un nuovo congresso di Vienna più che dell’Illuminismo, dove sarebbe allora, il confine fra il dentro e il fuori? Ma nei fatti no? Nel mito! Immagini a cui l’eurosistema si adegua o al massimo commina multe, non lo capisci Paterson? E poi certo ci sono gli swap, il credito al consumo, i capital gains. Bolle immobiliari. Ma quante parole nuove che abbiamo qui! Un Eurospeak di quarta generazione potrebbe uscirne fuori. Se c’è un punto che unisce Paterson ai sette poeti che gli danno voce in questo libro, quel punto è la percezione dell’investimento andato a buon fine. Ma nel senso di essere stati investiti, travolti da un nulla che sta fuori e che corrode dentro. Se non si fa così è la catastrofe. Dai, Paterson, fatti ammazzare, ne va del futuro dei tuoi figli lo capisci o no? Adesso mi chiederai come tuo solito: “Che cosa vogliono da me i poeti? E perché mi hanno dato voce se sono così ambiguo?”. Scardinare un senso comune, forse è questo che vogliono da te i poeti, mettere su parole che non pretendano di dare a te come persona un significato univoco, eventi di cronaca misti ai pensieri più intimi di un middle man, che non è in grado nemmeno di coltivare il suo giardino, e che ci sta dentro tutto sommato, e ci sopravvive. In questo sei davvero Europa, una visione mitica, uno che ha fatto il debitore per buona parte della sua vita e che adesso, un minimo, forse, non si sente più colpevole. Questo dunque il taglio del libro. Un taglio da microscopio, che si concentra sullo scannatoio interno all’area protetta, e non oltrepassa i confini, lasciando sullo sfondo la tratta del lavoro migrante, il popolo rom, quelli che realmente sono gli esclusi, i diversi. Forse un giorno anche Paterson avrà un permesso di permanenza temporanea, e al suo posto viaggeranno low cost individui più propensi di lui a mutar pelle, costumi, vocabolario. Black, brown and beige, diceva una vecchia canzone. Ecco se Paterson è il beige, la via di mezzo, qualche cosa di scolorito che sta per sparire, un passaggio di stato, allora la Deriva del Continente è il colore fisso, l’assenza di pallore, il bianco e il nero assoluti, o meticciati in un posto da chief manager di origini antillane alla Lehmann Brothers sede di Londra. Una deriva del disincanto, e del terribile fascino culturale dei fatti intesi come fatti e basta, del realismo che si nutre di luoghi immaginari, di simboli e miti appunto.

In ultimo ma non ultimo c’è poi il riflesso della Crisi nella materia poetica. Anche qui gli autori di questo volume (Viola Amarelli, Simone Consorti, Elisa Davoglio, Gabriel Del Sarto, Francesca Genti, Marco Mantello, Albert Samson) riescono perfettamente a restituire una fotografia del nostro tempo. Dove il confine tra prosa e poesia è decaduto come i confini all’interno dell’Europa dopo l’unificazione, dopo il suo fallimento che nessuno riconosce in virtù delle poche cose buone che ancora restano di quello storico momento (sarà propria la storia a giudicare, e forse anche i poeti). Dove l’andare a capo è una questione squisitamente privata e imposta al lettore che non riconosce più la poesia, ma la sua implosione (e così facendo, indirettamente, legge poesia). In un poemetto (perchè di poemetto io parlerei) nel quale il curatore ha avuto l’intelligenza (e lo voglio sottolineare) di non mettere i nomi degli autori che vengono indicati solo in indice. Proprio perchè come non esiste la vittima e non esiste il carnefice, ma solo la colpa che non riconosce nemmeno più se stessa, così in questa Crisi strutturale dell’uomo non esiste più il lettore e tantomeno l’autore, ma resta la poesia, come resta Paterson. E tutto ciò che resta dà comunque modo di sperare, di auspicare a un ritorno, a una ricostruzione.

Di cosa, non sta a me dirlo. Così come quest’ultima riflessione è in fondo solo una mia personalissima presa di posizione. Opinabile, lo so.

 
 
 
 
 
 
Paterson, Love Speech, 1 giugno 1998
 
 
Queste luride puttane laureate
non lasciano mai nulla al caso.
Prima ti spiegano. Poi ti perdonano
e quando te ne vai
ti fanno sanguinare il naso.
Era così che mi dicevi al parco
e che avevi una figlia addosso
e che era un fatto, era così che eri,
e ti lasciavi scorrere, fermo,
educavi le rose a intrecciarsi
per imparare l’arco
e quelle si intrecciavano, sì,
ma intorno all’osso…
Progettavamo pace perpetua
oltre che fondi comuni di investimento.
Valevano più delle nostre vite
– Te lo ricordi Paterson?
O del fatto che il capo, anzi la capa
chiedesse a noi di perquisire i fiori
per vedere se c’erano insetti dentro
per capire se erano belli fuori…
L’Europa era sparita nelle corolle
separata da Paterson e dai suoi eredi.
L’Europa aveva assunto le forme
di un monumento ai caduti in piedi.
 
 
 
 
 
 
2
 
 
Module Construction Yard: ai limiti
del viale, dietro la muraglia di cemento
prefabbricato, s’innalzano verso i cieli,
verso possibili lontane biosfere,
questi metalli lucidi,
fragili speranze riflesse negli occhi di chi
s’infila davanti all’ufficio Risorse Umane
e frettolosamente espia.
 
Ho guardato lo scintillio del sole d’agosto
sui tubi verticali, sulle giunture
dei moduli sovrapposti lungo il viale vuoto
alle 13: la profezia, il contrasto
coi vecchi capannoni attorno,
e i piazzali semivuoti. Ho visto lo sporco
depositato negli anni
e nelle vie di scolo, polveri di marmo
e altre polveri.
 
Subappalti. Avvicinarsi al natale.
 
 
 
 
 
 
A Londra, q quarant’anni e un mese
Over the garden (Over the Counter)

 
 

[…] A Paterson è consentito accendere per l’ultima volta un computer, per togliere il suo salvaschermo.

Gli concedono di raccogliere semi, travasare terra dai grossi vasi che ornano ancora l’ingresso, monumentali.

La cura del verde, la predisposizione all’ordine, alla santità.

La purezza di ogni peccato. Piangendo una sola volta.

Paterson cerca istruzioni utili per la crescita di legumi, e di altre piante da fiori.

Si è convinto che non vuole morire.

198 casi nell’ultimo anno con una crescita del 32% rispetto ai 150 casi dell’anno prima e del 67,8% rispetto ai casi dell’anno precedente.

Perché i legumi i fiori e altre cose che nascono dalla terra sono infinitamente più vecchi delle monete.

Il bene. Il valore. Un tanto al chilo. Scommessa sul costo.

Moneta, dal verbo latino monere che sta per avvertire, ammonire.

Paterson legge, conosce, approva: “Una volta all’anno i banchieri regolavano i rapporti fra di loro, trasferendo solo la quantità d’oro corrispondente al saldo fra tutte le operazioni intercorse. Questa prima forma di stanza di compensazione era rappresentata dalle fiere di Champagne nel Trecento, dalle fiere di Besanzone nel Quattrocento, dalle fiere di Piacenza nel Cinquecento.”

Nelle scatole di cartone si depositano pupazzi matite i residui di un universo imploso e in espansione.

Hanno stabilito una diaria giornaliera di quel tanto con cui si può vivere. Non moriranno di fame né di malattia.L’assicurazione coprirà il fabbisogno calorico di un maschio adulto nelle giuste percentuali di elementi nutritivi. Rassicurano di questo mentre vengono spazzate vie le favole, le massime di successo proiettate sul largo muro dietro la scrivanie.

Quando Paterson ha visto la fine, ha ascoltato il rumore del crollo. Proveniva dai piani più alti ma anche dalle fondamenta tanto fissate a terra.

Il mondo era lì ed era altrove, nello splendore dei meccanismi automatici, nella precisione dei sistemi di collegamento.

Paterson sa che non c’è luogo a questo mondo dove non possano arrivare informazioni. Quindi è inutile fuggire.

Quando il cancello si è chiuso e la fila di è dispersa, era soddisfato di avere i semi, di poterli mettere al riparo.

Ma non erano con lui.

Chiusi in nylon con poca terra, senza nessuna voglia di germogliare.Eppure assicurano sul potere di poche unità di luce per vivere. L’orario è concepito per destinare le giuste ore alla ricarica, al lavoro, al desiderio.

Si coltivano germi di pazienza, mentre l’orologio batte a distanza la stessa successione die minuti. Lo smacco, il crollo, la perdita sono arrivate nello stesso momento, in luoghi diversissimi, con differenti percezioni del calore dei mesi e della durata del giorno.

Allo stesso modo si sono confezionati pacchi di cartone, si sono abbandonate case e passwords, e sempre più si è avvertito il bisogno di scambiare salumi con pacchi di biscotti, auto dirigenziali con affitti a lungo termine.

Eppure Paterson sa che non sarà più possibile.

Assicurano sulla individualità dei giardini, sulla capacità di autogenerarsi, infinita come la vita della materia che non può distruggersi.

Non riescono a distruggersi certi ecosistemi; e ancora la biologia rimane inconcepibile per chi si intende di trasformazioni di consumo.

Paterson pensa: da qualche parte deve pur esserci il riciclo delle nostre vite. Più in là di un pentimento, deve esistere un luogo dove ricompaiono le cose e i loro valori divorati su carta.

Le margherite gialle sono resistenti proteggono il tappeto erboso anche quando gli idranti hanno cessato di innaffiare e nutrire la caccia del giorno dopo.

Hanno detto di ricominciare dalla terra, dal sostentamento minimo di animali e piante commestibili.

Paterson vorrebbe un giardino, ma non ha semi che vogliano appartenergli. […]

 
 
 
 
 
 
3
 
 
– uscirà nudo una mattina a fendere
la folla alla fermata di una qualunque metropolitana
 
 
– in fila le formiche invadono il terreno,
la zappa si conficca, le scompiglia
avanzano i più forti
tutto un presidio – io rimpiangevo i deboli
 
 
– ho occluso i circuiti, bruciati i ponti
strappati i by–pass, intorno c’è il deserto
nessun nemico – mi chino
 
 
– sta per i fatti suoi, quasi ringhioso,
il gatto nato bianco, quasi albino,
le zampe dietro sbilenche
si rifugia tra i pini, i peli irrigiditi
di resina la crosta, non sorride
rifugge – mio fratello ha paura
 
 
– bere di notte acqua alle pozze
incontrare allegri porcospini
spedire i minatori nel ventre delle madri,
le sciocche, povere talpe – un rospo deciduo
verde squillante tra i ciclamini la mattina
l’involucro, di suo, già corpo vivo
 
 
– l’istante che gli frullano
le ali, d’un colpo la tortora che
plana e la farfalla enorme
candeggia questa luce, squaglia
crema, intanto che si scollano
etichette, si arrestano i pensieri
frullano insieme tutti – senti
i respiri
 
 
– ora che il giglio più non segna i giorni
e l’ombra dello sguardo dentro il buio
è come quel portone chiuso alle spalle,
ora frantuma la linea del crinale,
la piazza vuota, la notte dei cristalli.
 
 
 
 
 
 
4
Infanzia Paterson: 2 giorni, dall’analista
dopo un week-end a Granada

 
 
Sono nato come tutti gli altri:
in sala parto di anonimo ospedale
– sturato l’utero con una ventosa –
non mi hanno conservato il cordone ombelicale.
Perchè costava un pacco e mamma e babbo,
pur volendo per il loro figlio il meglio,
pagavano due mutui trentennali
di bilocali ai confini dell’Impero:
niente da fare per le staminali,
ma un giorno sarei stato il re del caseggiato
e avrei affittato a caro prezzo a sei cinesi
e ad una banda di senegalesi che mi hanno,
col sudore della fronte, di fatto finanziato
viaggi, studi, il master di sei mesi alla Bocconi
e il fumo che compravo a Capodanno.
 
Allattato da mamma-biberon
– nei Settanta era il boom del latte artificiale –
non me la sono poi passata tanto male,
anche se la mancanza di suzione della tetta
è stata causa della mia disfatta
con Carla e con le donne in generale
di questi amori liquidi che vivo
(l’ho letto venerdì sull’Internazionale
sulla rubrica psico-comportamentale
che sfogliavo sul volo di Easy Jet
per raggiungere a Granada Hyun-Shik
dolce orientale conosciuta in chat).
 
La mia infanzia l’ho trascorsa nell’ovatta
della doppietta Ciocorì più Atari,
che mi hanno resto un riformato a vita
impreparato al collasso dello Stato
e delle istituzioni, al crack globale
che nelle notti insonni sogno di sanare
mandando Space Invaders sopra il Quirinale
o l’uomo tigre a Bruxelles, parlamentare,
io, Imperatore della “Dinastia del Poi”,
io, Paterson, come tutti voi.
 
 
 
 
 
 
Paterson 51 anni
Marble Consultin Ltd.

 
 
Nel profilo dietro la porta a vetri che scorre
non appena entri nel campo d’azione
della telecamera, nessuna sorpresa, solo
si apre pieno il silenzio prima
della domanda di cortesia, il vuoto
di una sala d’attesa
foderata, nella quale sfiorare lo schermo
del telefono cellulare è l’unica forma
di contatto con se stessi – una circolazione fluida
di plasma e sangue – mentre un filo
d’aria condizionata scende dall’alto
e la musica fredda scivola senza fine.
È normale. Siamo qui
complici di questo silenzio e le sorrido
mentre mi offre un caffè. Non so, forse dovrei
dirle di quel Mar Baltico dentro
la sua isola, di quel bianco che vedo.
Il suo corpo scompare veloce
oltre la soglia e lo schermo scuro che stringo
sembra retrocedere verso un’altra epoca,
in un tempo o solco tracciato da altri, non qui,
e per nessuno di noi, che non sappiamo perchè
sostiamo in questa veglia, aspettando cosa.
 
 
 
 
 
 
Questo vento nella luce è settembre
in un parco, il tuo compleanno
o una domenica meditativa
sui cristalli
di calcite, granuli, impurità. La temperatura
e la pressione. Nasce tutto dalla morte,
mi disse, siamo colmi anche noi
di morte. E queste Alpi scavate
eternamente,
corridoi levigati, bianchissimi. – La distruzione
millenaria dei fossili
e altre tessiture
e stratificazioni.
 
Osservo, in un’ora dopo il tuono, le geometrie
che diventano ordine
l’autunno che scorre, il succedersi
degli eventi che esplodono in un cavo
e quell’uomo
che sfoglia l’agenda fino a tardi, le luci
accese nella sala riunioni, che persiste
in un destino, calligrafie minute, libri contabili.