Scrive Bataille che l’arte in principio era espressione di forme sovrane, divine, regali. Con l’ascesa del ceto borghese, dedito all’utile e incapace di onorare incondizionatamente qualcosa, incapace di vera devozione, le forme maestose finirono col diventare sproloquio magniloquente, vuoto; “alto” e insignificante: la menzogna solenne di chi non ha più la forza di credere. È un passaggio assodato della critica d’arte ma Bataille approda a una precisione profonda: con Manet, in parte anticipato (sarà un caso?) da Goya, ritroviamo questa grandezza solo nella «passione di colui che raggiunge in se stesso una regione di silenzio sovrano». Quella dell’arte, continua citando Malraux, è una «cattedrale segreta». Ogni eloquenza è eliminata, ma da questa assenza emana una «pienezza densa». Il sacro è ormai muto, non proclamato. È frutto di una «trasfigurazione interiore, silenziosa, in qualche sorta negativa».
Non è certo l’unico ad aver avuto consapevolezza di tutto ciò, ma è difficile trovare un poeta contemporaneo che incarni più di Mario Benedetti questa profonda e moderna sensibilità: lo yogurt, il televideo, la scodella, l’erba, il mobiletto, le bucce, la tosse, le brioss del supermercato, le sfoglie inzuppate nel latte. A partire proprio dalla lingua di Umana gloria, lingua che Benedetti in una vecchia intervista ha definito «di parole antropologicamente determinate»2. Una lingua umana, povera – in Benedetti questi due termini sembrano sinonimi. Frantumata, insidiata. Eppure da queste parole proviene spesso un riverbero, qualcosa eccede. Così come dai vecchi oggetti proviene a volte un’aura di eternità, sembrano dèi, qui, gli esseri umani che compaiono nell’ultima poesia della sezione In fondo al tempo:
Arrivano a piedi come gli dèi, stanno lì.
L’essere di qualcuno tra le case e io con la
mano cancello davanti
un ragnetto sul foglio,
niente non vuole dire se piango.
Luna, corridoio bianco, come ho corso!,
e nel vento sono ancora che mi porti, braccio, ramo nel
buio che si muove.
Come corro, come ride l’acqua
e tu mi guardi come qualcuno, perché sono qualcuno?
Corro nell’acqua increspata, cosa c’è
in questa musica visi, fisarmoniche e il volere andare, e
dopo il pianto grande la voce così bella
sai, dice, vieni, sono tutta nel sogno e tu? Io, le
mie scarpe le risa le travi dove? sono qui i
morti? sono qui?
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