Se fosse possibile riassumere l’ultima raccolta poetica di Daniele Giustolisi La condizione dell’orma (Pequod, 2025), si potrebbe usare senza ombra di dubbio la parola “origine”. Il poeta ci porta nei luoghi della sua infanzia, sulle coste della Sicilia dalle viste vertiginose, ci porta con sé nei momenti più intensi di attesa della figlia Diana, ci porta a conoscere l’assoluta gratitudine di fronte all’amore e all’amicizia. I rapporti umani sono la chiave di questa raccolta, così come il rapporto che l’uomo instaura con i luoghi (non solo quelli che lo hanno visto crescere, ma anche quelli che ora fanno da sfondo alla sua vita). Lo sguardo del poeta è continuamente rivolto ad un “tu”, ed è questo particolare aspetto che rende l’opera perfettamente compatta. Non c’è verso che non sia gratitudine di fronte ad una presenza, fisica o meno.
La prima sezione “Dove esiste già la tua rosa” si apre con dei versi dedicati alla scoperta del concepimento della figlia Diana, come spiega il poeta stesso nelle note in conclusione al libro. La geografia dell’avvenimento non è per nulla banale. Troviamo Ancona, una casa affacciata sul porto e il mese di agosto. A legarli, un unico elemento: l’essere posti all’estremo di qualcosa. Il mare, come approdo o partenza, è sfondo di molte poesie all’interno di questa raccolta, tanto da riecheggiare anche nei termini di cui il poeta Giustolisi fa uso per descrivere alcune dinamiche. Leggendo certi versi, come quelli che seguono, ci chiediamo se un concetto del genere sia possibile descriverlo in altro modo, usando un’altra parola: “Ma per chi e per dove, / quale diga rompe / per essere qui / il tuo piccolo cuore.” Quando poi la gravidanza arriva al suo termine, comincia un altro tipo di attesa, e ancora colpiscono questi versi: “Rilasci il respiro / e ciò che non puoi più trattenere.” Per tutto il percorso lirico all’interno di questo libro il lettore si trova di fronte al limite degli eventi. In questo caso si tratta dell’orlo da cui sbuca una nascita, un nuovo inizio, la vita. Ma altre volte, probabilmente con più frequenza, all’interno del libro ci troviamo di fronte ad altri tipi di confini che possono avere a che fare anche con la fine. Ad esempio, il lettore può trovare evocativi e può empatizzare con questi versi all’interno della sezione Come garza tra le case: “La casa che lascio / trattiene ogni volto, / ogni ombra che va dove deve, / nel segreto del giorno.” Lo sguardo del poeta resta sempre e comunque positivo, come se nulla davvero possa andarsene dalla propria vita. Perché una casa che lasciamo e che inevitabilmente trattiene ogni volto, ogni ricordo, ogni odore, resta nostra per sempre, anche se dovesse essere abitata da altre vite. Questa, mi viene da dire, non è semplicemente una riflessione autobiografica, ma è anche una sorta di insegnamento rivolto a chiunque possa trovarsi a leggere questi versi: ricorda che in quel luogo rimarranno per sempre pezzi di te e di chi hai amato. È anche così che si diventa immortali sulla terra.
Sul concetto di origine è particolarmente focalizzata la sezione “La condizione dell’orma”, al cui interno il lettore può trovare due diversi sguardi sull’argomento. Parla della terra e del mattino, il poeta, quando rivolge il suo sguardo e il suo canto all’origine intatta delle cose. Ad esempio, in questi versi leggiamo: “Sigillo del mattino / sulla prima sabbia, / che simile alla carità / offre intatto il suo manto.” Immaginandoci la scena, non possiamo non pensare io credo ad un paesaggio perfetto, alle prime luci del mattino che illuminano la sabbia ancora intatta e senza tracce di passi umani o animali. Dopotutto la parola “sigillo”, intensa ed evocativa, ci parla e suggerisce una immacolata perfezione. Ma il tono del poeta diventa all’improvviso cupo, o per meglio dire malinconico. Si nota subito a partire da questi versi: “Figlia unica, indifesa. / Che mentre vado lascio, perdendo.” È come se da questi brevissimi versi partisse un’esplorazione verso la “rinascita”. All’interno di questo libro si alternano, come delle onde, nascita e rinascita. Parte di quest’ultima è il dolore della perdita, della morte, ma c’è anche lo stupore per un nuovo inizio.
Tremendi e dolci appaiono questi versi: “Piano scomparirà / nella luce bassa di Ponente, / nell’onda che passa / come una mano / che mentre ama cancella.” Il lettore potrà riempirsi di interrogativi dopo aver letto questi ultimi versi. Sono parole contraddittorie ma anche tanto vicine alla verità. Non sappiamo a cosa si riferisca esattamente il poeta: cosa “piano scomparirà”? Ma non deve interessarci. Leggendoli vediamo nei versi le nostre mancanze, i nostri dolori, e pian piano sorridiamo pensando all’onda che ama mentre cancella tutto il passato. Sono dei versi profondamente umani e curativi, infatti credo non a caso sia stata usata la parola “mano” per personificare il gesto dell’onda.
Ognuno di noi si vede, nel corso della propria vita, attraversare periodi di rinascita e periodi di nuove ricadute che sembrano sempre molto più difficili da superare, e pian piano l’alba sembra essere sempre più lontana. La felicità ci cura, questo è vero, ma credo anche che possa anestetizzarci e fungere un po’ da sedativo che fa perdere la memoria. Così che, quando ricadiamo per chissà quale motivo nello sconforto e in un dolore nuovo, torniamo ad essere quasi senza speranza e ci sembra di non aver mai sofferto tanto. Non ci ricordiamo dei traguardi raggiunti, della gioia che fino a poco prima ci faceva essere così speranzosi. No, riusciamo solo a vivere intensamente il male e la preoccupazione. Credo si riferisse proprio a questo quando Daniele Giustolisi ha scritto questi versi: “Tornerà, incessante, / breve ferita / di pelle e sale, / sull’umida terra / che non ha memoria.” Ed è esattamente su questi ultimi due versi che il lettore punta gli occhi: “sull’umida terra / che non ha memoria.”, e si può subito creare il collegamento con i versi dedicati alle onde che come una mano facevano sparire le tracce del passato.
Altro elemento molto importante all’interno di questa raccolta poetica è la presenza di brevi scritti in prosa, ognuno di essi chiamato “Taccuino” e numerato per arrivare ad un totale di undici. La prosa non poteva non essere poetica, quindi il lettore non deve stupirsi di ritrovare in questi brevi frammenti la stessa intensità delle poesie da essi incorniciate. Colpiscono in particolare le ultime righe del Taccuino III. Al suo interno accade qualcosa che è sempre presente nelle poesie di Daniele Giustolisi: gli uomini, coi loro umori e i loro corpi, in qualche maniera interagiscono sempre con la natura e col mondo in cui vivono. Aiutati da questa prosa che, ripeto, è estremamente poetica, siamo condotti all’interno di una scena di profonda intimità in cui, il poeta e sua moglie, ricevono dall’amico artista Sarino dei mandarini. Lo sfondo della scena non poteva non essere la Sicilia, per essere più precisi ci troviamo immersi nella terra di Giustolisi che lui chiama per tutto il corso del libro col suo nome originario greco: Mìlai.
Sarino consegna questi mandarini, un gesto di estrema dolcezza e carità, carico però anche di dolore. Scrive: “Ce li dà come una promessa, come un addio che nessuno sa dire bene, turbati così come siamo da un forte vento che sembra annunciare, dietro i muri, i giorni più freddi dell’anno.”
Colpisce l’incombere di questo forte vento come l’annuncio di qualcosa più grande di noi, più grande persino della poesia, della parola dell’uomo. Questo silenzio direi doveroso, che fa venire in mente l’indicibilità di Dante di fronte alla meraviglia divina, è l’elemento che dona dramma e al tempo stesso misteriosa bellezza a questo racconto. Chi, a parte i poeti, può continuare a raccontare queste dicotomie? Questo paradosso che è la nostra vita? Questi versi di Giustolisi credo siano perfetti per concludere queste riflessioni: “nessuno / a difendere quest’ora, / il suo grido.”
Il grido di tutti gli uomini, da sempre, è preso in custodia dai poeti.
Caterina Golia
IX
Ma per chi e per dove,
quale diga rompe
per essere qui
il tuo piccolo cuore.
Tu, l’attesa che non ha padrone.
Sulla terrazza un vecchio
a picco del sole.
Sentinella del niente
e nemmeno più un dio
rimasto a vegliare
sul suo disperso amore.
La notte
dopo il turno,
la tua voce.
Il tuo reggermi la mano
ma da che limite
impossibile.