La chiesa di Wagner – Dejan Ilić

Cacciatori nella neve

da Bruegel

Torniamo dalla caccia insieme
con i nostri cani. Siamo stanchi e
abbiamo freddo e fame, come loro.
Ma il villaggio è là, subito nella valle,
ci aspettano le nostre mogli e figli,
i fuochi accesi. Non portiamo niente,
una volpe, come misero compenso,
era un viaggio al vuoto, un arrancare
attraverso la neve, invano, che cosa diremo?
Non era il nostro giorno, o non era il giorno
affatto, ma tutto il tempo un crepuscolo
ghiacciato, la terra coperta senza fine
e nessuno da nessuna parte. Qualche pista
nella neve, degli animali che si sono
rifugiati in tempo. Freddo vento in faccia,
faccia della mancanza, fredda brina
sugli aghi, dell’ansietà.
Siamo andati, tornati
attraversati.
 

Una magra caccia quella dei cacciatori, degli uomini, di noi: “Non era il nostro giorno, o non era il giorno / affatto”. Buio, freddo, mancanza, ansietà. Non siamo tanto noi a essere andati, e tornati, soggetti agenti, attraversatori consapevoli dello spazio; ma lo spazio, e il tempo soprattutto, loro ci hanno attraversato, e consumato. (C.D.)

 
 
 
 
La chiesa di Wagner
 
La sensazione, di antico, anche se
si tratta solo di un centinaio d’anni,
la chiesa di Otto Wagner vicino a Vienna,
alta sul colle, circondata dai pini, solitaria,
brillante. La stella allontanata della secessione,
adesso anche rinnovata, pulita come se
fosse caduta dal profondo dei tempi
nel giorno d’oggi. Là di sotto è Steinhof,
la clinica psichiatrica e il parco
e la memoria di settecento bambini
sottoposti all’eutanasia durante
la seconda guerra mondiale. La vertigine
dell’arte, della follia e del crimine,
come se si spaccasse una diga,
parapetto che protegge dall’abisso.
 

La bella chiesa del grande architetto Wagner illuminata dal sole, in alto, ripulita recentemente ma che sa d’antico pur se moderna, e sotto di lei, proprio sotto, l’inferno dell’ospedale di Steinhof, teatro del massacro di oltre settecento bambini disabili, orfani e «degenerati razziali» ad opera dei nazisti della famigerata operazione Aktion T4. La chiesa (l’arte), sull’abisso, sembra precipitare, come se una diga si rompesse e l’acqua ci travolgesse, e seppellisse tutto. (C.D.)

 
 
 
 

da Egon Schiele

E i corpi continuarono a dissolversi,
si dissolvono anche oggi, qui sono colti
all’inizio del capitombolo,
tra l’ansietà e l’erotismo, ritorti,
intrecciati, nella paura, incompleti,
nudi o spogliati fino alla carne o
nello spasimo, gonfi dal desiderio, lascivi,
vogliosi, e, al contempo, torturati, consumati,
sanguinosi, scorticati fino alle ossa. La Grande
Guerra finiva con la Grande Pandemia
che avrebbe portato anche lui, il corpo
di sua moglie e del loro
figlio non nato, la famiglia
nel divenire. Cominciava il secolo breve,
e tutto era pronto per il nuovo
progetto: il corpo atomizzato,
genetizzato, formattato
e alla fine lanciato
nel cyberspace.
 

I corpi consumati, torturati e scarnificati di Schiele a inizio secolo, con la carneficina della Grande Guerra e della Spagnola, preannunciano un tempo, il nostro, in cui il reale e divenuto virtuale, e il corpo non solo è scarnificato, ma addirittura disintegrato, smaterializzato, scomparso. (C.D.)

 
 
 
 
Paesaggio invernale con pattinatori

da Hendrick Avercamp

Forse solo il sordomuto da Kampen
poteva vedere questa allegria
e rappresentarla così. Aneddoti, cadute,
piroette di una “piccola era glaciale”
per lui erano i grandi segni
di un secolo d’oro. Sul ghiaccio, la vita,
che solo vedeva, che la vedeva davvero,
perché non poteva dirne niente
non poteva sentire, sui fiumi ghiacciati
sui canali ghiacciati.
Era una danza sotto il cielo fermato
e pallido d’inverno
dove gli uccelli infreddoliti volavano,
sottrarre le voci, sottrarre i gorgoglii,
coprire con la neve e il ghiaccio, irrigidire
tutto perché il mondo balli.
E i villaggi pattinavano,
e lui dipingeva.
 

Torna il gelo e il mondo appiattito, sparito di Ilic, nel famoso quadro di Avercamp, e tutta questa moltitudine vivace e allegra di gente che gioca e danza, pazzi forse o bambini, è forse perché, pensa Dejan, l’artista era sordo e muto. Torna il rapporto tra arte e abisso, follia. L’arte vede, non si nasconde l’assurdo del reale, lo vede e cammina su di lui come un equilibrista. Gli orecchi tappati come Ulisse davanti alle sirene. (C.D.)

 
 

I testi qui presentati sono tratti da Camperplatz (2021, traduzione dal serbo dell’autore) di Dejan Ilić. Nato nel 1961 a Travnik (Bosnia e Herzegovina), dal 1969 vive a Belgrado (Serbia) dove ha studiato laureandosi in lingua e letteratura italiane. Il suo primo libro di poesia Figure (Figure) esce nel 1995, poi seguono le raccolte U boji bez tona (A colori senza suono, 1998), Lisabon (Lisbona, 2001, Premio Đura Jakšić], Duvanski put (Strada di tabacco, 2023), Kvart (Quartiere, 2005), Iz vikenda (Dal weekend, 2008), Linije bega (Linee di fuga, 2011, poesie scelte 1995-2008), Katastar (Catasto, 2013, Premio Branko Miljkovi), Dolina Plistos (La Valle Plistos, 2017, Premio Meša Selimović per la migliore opera letteraria dell’anno) e Kamperplac (Camperplatz, 2021). Si occupa di traduzione letteraria, è traduttore di Quasimodo, Ungaretti, Sinisgalli, Cattafi, Luzi, Leopardi, Pavese, Magrelli, Pusterla, Fiori, Damiani, Villalta… e Philippe Jaccottet (Premio Miloš N. Đurić per la migliore traduzione di poesia dell’anno).

Claudio Damiani