La casa era lì, ma niente più di noi – Filippo Passeo

Bozza automatica 2835
 
 
Non ti lascerò prendere
 
Capita che arrivino venti storti
a strappare foglie dai loro tronchi
e a trascinarle chissà dove.
Quando tu sarai colpita, mia foglia d’oro,
niente ti trascinerà e cadrai,
secondo copione di riposti desideri
cadrai sull’amaca delle mie braccia.
 
Ti poserò sulla mia terra per esserne radice,
ti coprirò di neve dell’Antartide
e aspetterò, aspetterò,
poi, spero,
mi sboccerai fiore bianco sulla carne
per fermarmi le sabbie della vita
e, coperto dallo squamare dei tuoi petali,
forse anch’io
sentirò la freschezza della neve.
 
 
 
 
 
 
Conoscenza
 
A volte il cuore si gira da un lato.
Le dolci parole che una lingua
mi ormeggiava nella bocca sonnecchiano.
Non si tratta del ritiro di maree
o del rattristarsi davanti a un camino
senza fiamme.
 
È che l’amore non muove il sole e le altre stelle.
Einstein guardava e si meravigliava,
contò equazioni con le dita
e quando le chiuse
si trovò in mano l’Universo.
Io non ho numeri,
ho solo sillabe sospese
nella materia tra due stelle,
tra il Sole e la Terra,
tra montagne e mari,
tra boschi e fiori, tra api e leoni.
Ho solo queste parole che esclamano
infinito e meraviglia,
anche se non so comporne il mosaico
con noi e oltre noi.
 
 
 
 
 
 
Snidati
 
Lasciammo le nostre cose segrete
nei vuoti delle stanze,
in mobili, scrigni, vasi…
non c’erano crepe nella casa per nasconderle.
Alle pareti bianche
solo la collezione dei nostri baci
che rubavano il batticuore agli orologi.
 
Vi tornammo da luoghi distanti e diversi
con dizionari capovolti.
La casa era lì, ma niente più di noi.
 
 
 
 
 
 
Sublimazioni
 
Vorrei che queste sillabe
fossero tasti di un coda Boesendorfer,
i versi corde vibranti di un’arpa celtica
tale che i tuoi occhi possano sfiorarli
e farli risuonare,
superando cadute di doppi bemolle,
con una musica
che avresti da tanto voluto ascoltare
in questi tuoi e nostri giorni
incollati al silenzio
di labbra e strade.
 
 
Filippo Passeo, inediti
 
 
 
 

Conosco la poesia di Filippo Passeo ormai da alcuni anni, pur non avendolo mai incontrato di persona. Esattamente dal 2016, quando decise di pubblicare con la Samuele Editore Bruciati il cuore (prefazione dell’ottimo Giulio Maffii). Una poesia semplice, che a tratti fa trasparire la cultura di una persona incuriosita dal mondo e dalle lettere. Tecnico minerario per 30 anni nei sotterranei delle Zolfare siciliane, Passeo scrive ogni sera una poesia a incisione della vita. Un’incisione profonda e leggera, priva di intellettualismi ma densa di tutti quei passi che compongono un vissuto.

 

Leggere questa poesia fa sorgere una domanda: qual è la posizione giusta, la posizione della mano, della schiena quando seduti, della mente rispetto a se stessi, mentre si scrive un verso?

 

Spesso si incontrano libri e poeti di cui si avverte la posa, prima e dopo il libro, quando il nome di poeta diviene più importante della poesia stessa. E ci si trova davanti a testi che colpiscono, che danno un colpo allo stomaco o blandiscono non potendo non piacere. Federico Rossignoli, amico che cito spesso nelle mie piccole note di lettura, ha una formula che trovo sempre straordinaria: è una di quelle cose che non possono non piacere, ma che senso ha?.

Domandarsi il senso di una poesia apre scenari e problematiche vertiginose. Già altre volte ho citato l’amica Mary Barbara Tolusso quando, in tempi pre-Scontrosa Grazia a Trieste, diceva che una poesia deve essere identificabile, riconoscibile. Altri, come l’amica Graziella Atzori, affermano invece la sacralità profonda del medium poetico, pur non disdegnando l’aspra concretezza della parola.

 

Resta però la questione del senso della poesia che forse non ha soluzione. Potrebbe essere il dialogo aporetico platonico, per quanto ne sappiamo. Idealizzarla, definirla come essere a sé, non ha mai aiutato e continua a non aiutare. Ma forse ci si può avvicinare chiedendosene l’opposto: cosa non è poesia.

 

Di certo la posa, come detto, da poeta. Scrivere manipolando la parola perché assomigli a una poesia, senza avere una vera e propria definizione di poesia, non è possibile. E gli esiti si vedono ogni giorno nelle diverse pubblicazioni che escono.

Non è nemmeno l’immagine del poeta, perché se la parola deve portare al suo autore non è poesia. Così come non è la bellezza di un testo a fare poesia. Toccare argomenti noti, accorati e accoranti, addolcenti, non fa poesia.

Così come probabilmente non è nemmeno la visione che, giocoforza, chi vi scrive ha. Parlando pochi giorni fa con un altro amico, Matteo Bianchi, ho realizzato che per me la poesia è cura contro la vita, nel momento in cui la vita è un cancro, quel surplus di vita che devasta la vita stessa. La cura è la chemioterapia, che distrugge un pezzo di vita ma ne salva il resto. Tornando al nostro discorso, la poesia è una chemioterapia contro la vita che non salva chi scrive.

 

Leggendo Filippo Passeo però (ed è il motivo per uso la prima persona, contravvenendo a quella che dovrebbe essere una buona educazione nello scrivere note di lettura) non trovo gli errori e le sbavature di chi si crede poeta, di chi s’impone poeta. E non trovo la posa, lo stile farraginoso di chi vuole convincere che la sua parola sia qualcosa che non è.

Filippo Passeo è capace, con una semplicità colta ma non costruita, con un desiderio immediato di dire, di sintetizzare una quotidianità fatta di vita interamente vissuta, e ancora in divenire, di tessere il filo d’inchiostro sulle pagine rifiutando l’imposizione d’etichette ma raccontando, spesso in una narrazione spezzata, il quotidiano.

Una narrazione che non di rado in chiusa rifulge, illumina. Che sferza la narrazione stessa per un canto abbozzato in due tre versi finali che lasciano trasparire non la poesia, ma ciò che il poeta ha imparato dalla vita.

Perché forse, e in Passeo emerge in maniera importante, poesia è ciò che abbiamo imparato dalla vita. Nell’umiltà di non volersi imporre come poeti. Nella voce chiara e netta che non cerca soluzioni finte.

 

Forse Pessoa non aveva completamente ragione. Ma questa è una domanda che ogni lettore si deve porre, con risposte che potrebbero non essere tutte uguali.

 

Alessandro Canzian