Tra i lasciti immateriali di Giorgio Bassani e Roberto Pazzi a Palazzo Paradiso, inaugura l’omaggio alla poesia della città di Ferrara* il poeta belga Jean Robaey, che da decenni vive a Modena, come testimonia con efficacia una delle sue prime pubblicazioni, presentazione del duomo di modena (Book, 2002). La raccolta è stata subito apprezzata da Bertoni che ne ha riconosciuto una versificazione capace di coniugare la pietas per il luogo e la sua storia con uno stile umile, non enfatico, bensì denso di echi e di chiaroscuri. Robaey costruisce un linguaggio poetico che “tocca il marmo” del duomo non per scolpirlo, ma per rivelarne le crepe, e in questo gesto discreto, ma profondo, risiede la consonanza con la poesia che Bertoni ha sempre difeso.
D’altronde, il poeta sta nel cuore del suo tempo poiché a quell’epoca appartengono la sua lingua e il suo pensiero, e da quell’orizzonte muovono verso di lui, verso il suo Dichten, le immagini dei viventi, le forme dell’accadere e le presenze umane e animali. Ma il poeta è anche, nello stesso momento, oltre il suo tempo; anzitutto perché il suo “dire” fa esperienza del non ancora detto, si disloca verso la soglia dell’indicibile, come corteggia il non vissuto, dà forma al non accaduto, si disloca, come diceva Baudelaire, “au de là du possible”. Ma anche perché con il suo segno il poeta tenta l’azzardo, compreso quello che con Mallarmé si sporgeva sul vuoto di senso o sul nulla. Per l’occasione ferrarese, dove ha insegnato lingua e letteratura francese all’Università, Robaey ha scelto di riattraversare la sua opera più tormentata, quella a cui ha rimesso mano più a lungo: l’epica, costituita da sette giornate, ossia sette volumi dati alle stampe da Bohumil tra il 2001 e il 2007, nella quale i contorni della narrazione poematica tradizionale si dissolvono per addentrarsi in un’esperienza percettiva e memoriale radicale. Nel flusso continuo dei versi, l’epica non è più un racconto di gesta eroiche, ma un’immersione nella pienezza del mondo, nel suo apparire fragile e tremendo al contempo, di fronte a uno sguardo ancora incontaminato che vede tutto per la prima volta.
prima l’aria che poi entra nei polmoni
sentì prima l’aria più piena più grossa
poi sparisce sentì prima l’aria di
versa da quella conosciuta prima da
l’altra parte prima l’aria sentì più
forte più intensa più leggera sparire
sentì il petto come sdoppiarsi poi
i muscoli più forti le giunture più
agili si stupì delle braccia cresciute
delle gambe più veloci aveva l’im
pressione che gli stessi peli della mano
fossero più forti la mano anch’essa
cresciuta aveva l’impressione aveva la
sensazione di sentire più di prima
l’aria riempire i polmoni più forte più
intensa gli apparve la luce il cielo più
azzurro profondo o le nuvole correvano
più veloci pesavano di più sulle teste
osò guardare i colori l’azzurro del
cielo era più azzurro più verde l’erba
e sentiva di poterne toccarne più di prima
la forza l’intensità sentiva di entrare
di più nei colori di sé cresciuti l’ombra
riposava di più e il giallo della sabbia
delle facciate era più giallo prima si
aprivano i fiori più tardi ma con più
forza tramontava la luce di là di
monti più alti nelle notti più fonde
Matteo Bianchi
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