Ivan Fedeli

Ivan Fedeli

 

Michele Paoletti intervista Ivan Fedeli

 
 

Soli o insieme si vive, immersi nella meraviglia del mondo. Questi frammenti di umanità descritti da Ivan Fedeli scivolano, si aggrappano, procedono per meraviglia o realtà. Sono le nostre vite, storie di persone qualunque, accomunate da un cammino e da una destinazione. Vite che vanno semplicemente, immerse nello stupore quotidiano, in grandi insignificanti eventi eppure preziosi proprio perché spesso irripetibili. Intanto il mondo accade nonostante noi e la nostra ricerca di senso. Un senso cercato nella poesia del cielo, negli altri che ci stanno accanto, angeli terreni che si affaticano / in mezzo a noi, immersi come noi in questo flusso interminabile. Così libri, corse sul tram e borse della spesa acquistano un altro peso, diventano misure di una libertà che ci spinge avanti finché c’è strada e ciascuno si dà.

 
 

I testi che presentiamo fanno parte della tua raccolta, appena uscita per puntoacapo editrice, La meraviglia. Ce ne vuoi parlare?

Il libro, nel titolo, richiama l’idea di uno strumento di indagine del mondo, la meraviglia, appunto; c’è, alle spalle, la convinzione che la poesia sia la capacità di incontrare l’altro attraverso una lettura spiazzante del mondo, quella che tra noi e quanto accade prevede un filtro, una chiave etica in grado di comprendere i segni che la realtà ci rimanda.

È proprio la realtà, in effetti, ciò che determina l’atto poetico, essa precede la politica e l’etica, anzi ne determina il senso stesso.

 

Leggendo i tuoi testi mi sono tornate alla mente le Figure d’angeli di Alessandro Fo raccontate in Mancanze (Einaudi, 2014). La tua poesia sembra cercare il divino tra la gente comune, tra gli angeli che stanno, inosservati, sulla terra. É così?

Il divino, credo sia l’umano: gli angeli sono le particelle che determinano il nostro essere nel mondo, rappresentano la presenza – altra che legge gli atti, le azioni, la pietas nascosta in ciascuno di noi e permette di vedere ciò che accade per interpretarlo.

 

I tuoi testi sono quasi piccoli racconti, narrati da una voce che sta in disparte, osserva e registra. C’è una scelta precisa dietro a questo stile particolare?

Sul piano formale credo ci sia la necessità di raccontare il quadro-mondo; il filtro dell’endecasillabo è fondamentale in tal senso, come la divisione in sequenze narrative del testo poetico. Il punto di vista del narratore è, in realtà, quello delle vite irripetibili che esistono proprio perché forza vitale, e determinano il tessuto del libro che, in verità, altro non è che la ricomposizione di una società perennemente alla ricerca di se stessa, di risposte.

 

Quali sono i tuoi autori di riferimento, quelli a cui ritorni mentre scrivi?

È una domanda difficile: si può partire da Omero, dall’epica, fino a giungere a Raboni, Erba, Fiori, Tiziano Rossi. In realtà credo che chi scrive sia solo se stesso, l’umile fatica di ciò che rappresenta.

 
 
 
 
Te li perdi così? Chi in bicicletta
faticando un po’, gli altri che si scordano
salutando tra macchine e pensieri
proprio mentre ammiccano, aprono gli occhi
prima di sparire dove li porta
il cuore. Ma sembrano veri come
la cravatta in tinta, la messa in piega
del sabato per l’invito dai suoceri
o la ruga in più che spunta a segnare
cos’è il tempo. Vanno semplicemente
e lo stupore del giorno dà il resto:
incrociano sguardi e parole, scrollano
le spalle se non funziona la vita
o il sudore fa alone a loro insaputa.
Dicono sia dell’umanità questa
meraviglia di nomi che non sai
allorché slacciano camicie, cercano
bollette, fanno guerra agli scontrini:
tutti lì in modo naturale. E battono
i pugni a volte, si voltano altrove.
Importa il passo giusto, il giusto odore,
se questo mai bastasse a esorcizzare
l’idea che davvero si scompare.

 
 
 
 
C’è un destino che accomuna qui,
ci si spalma un po’ sperando nel caso
di una corsia buona. Tocca a tutti
prima o poi: c’è chi frena, chi si affida
alla poesia del cielo aprendo
le braccia a dire ecco esisto anch’io. Scivola
così la vita tra malinconie
e orari, nessuno fugge o si sfila
alla meglio. E variano gli sguardi
nell’idea del mondo, se la sfida
è resistere al sole o se lasciarsi
andare dopo le insegne e i guardrail
come immaginandosi altrove. Basta
un soffio a volte, una parola al vento
e si gira chissà dove. La chiamano
libertà questa svolta senza meta
finché c’è strada e ciascuno si dà.
Per meraviglia o realtà si procede
e ci si assomiglia senza pretese.
È il miracolo di un giorno che va,
l’intesa dei respiri uno via l’altro,
il fatto che soli o insieme si vive.
 
 
 
 
Chissà gli angeli allora, il loro sguardo
bello come un pomeriggio di sabato
quando i ragazzi stanno al sole e aspetti
l’estate prima o poi. Si baciano anche
loro da qualche parte, forse chattano
le loro cose tra un sorriso e il vento
che li muove un po’. Capita ogni tanto
di sentirli passare mentre cerchi
l’ombrello o una direzione giusta,
magari il modo di dire a tua moglie
ecco ci sono. Questione di un attimo,
di qualche pagina sfogliata in fretta
prima di chiudere un libro poi vanno
con le signore sul tram o le borse
della spesa lasciate lì in attesa
dell’ascensore. Eppure cercheresti
di immaginarli loro e i loro passi
sullo sterrato, dove si affaticano
in mezzo a noi e basta questo alla vita,
senza esagerare. In fondo è l’idea
che conta, sapere il mondo protetto
a sufficienza allorché dalle scale
scendi e in giro la meraviglia è il giorno,
la sua luce obliqua qua e là, a distendersi.
 
 
Poesie tratte da La Meraviglia (puntoacapo, 2018)