Nel 1964 viene data alle stampe la prima edizione di Games people play (A che gioco giochiamo), opera saggistica dello psicologo e psichiatra canadese Eric Berne. Berne (che diede luce alla teoria dell’analisi transazionale) – per semplificare – teorizza qui un’unica personalità dell’individuo che si declina in tre strutture: Io genitore (normativo), Io adulto (analitico/razionale) e Io bambino (emotivo/spontaneo). Questi “personaggi” interagiscono seguendo un copione; ed entrano in gioco, appunto, tra di loro.
Saltando poi al 1970, lo psichiatra scozzese R.D. Laing pubblica Knots (Nodi. Paradigmi di rapporti intrapsichici e interpersonali), arrivando a una nuova frontiera: questa raccolta di poesie – o meglio, di appunti medici in anni di analisi con i pazienti, messi poi in versi – è il risultato di un lungo studio; Laing voleva esaminare l’insieme delle relazioni sociali vedendole anche attraverso la lente delle generazioni e facendole passare dai concetti di “proiezione” e “introiezione”. Per stringere, ognuno di noi, nell’entrare in contatto con l’altro, crea un’esperienza soggettiva della personalità che è al di fuori di sé: in questo incontrarsi che spesso è scontrarsi e incrociarsi e modificarsi, vengono a formarsi infiniti “nodi” – legàmi.
E poi c’è Bernardo Pacini, con Ipotesi sul mio disfacimento (Mar Dei Sargassi Edizioni, 2024): i nodi che i suoi tre Io hanno tra di loro e con chi invece loro è estraneo, non si stringono. Anzi.
Per tutta la durata dell’opera è un’alienazione più o meno latente a farsi e prendersi spazio. La materia di cui è fatto il mondo disfatto dell’autore è «a malapena resistente», così come lui stesso in primis si confessa – si mette a nudo. E non si stringono, dicevo, i legàmi che creano questi nodi. Si sfregano, si consumano in costanti attriti.
L’attrito di A con B, ad esempio; la prima sezione del libro, quella di apertura. Un vezzo del poeta, del suo Io bambino che «Da piccolo» scrive «giocavo al Sapientino»; il suo vago godimento «(…)passava dall’inganno delle regole / il trillo riprodotto con il metodo ortodosso
Un glitch quindi, un breve difetto del sistema che sembra non venire calcolato. Un incidente, tanto per provare. Eppure l’Io comincia a indentificarsi con questi spostamenti sempre più frequenti, a incarnarli tanto da renderli periodici, e divenire «alla fine» lui stesso «un tic [della mia vita]».
Questi tic nascono quasi a difesa dei cortocircuiti cui il poeta sembra essere costantemente sottoposto; del suo dolore. È, tra le altre, una diminuzione quella che ipotizza rispetto al proprio disfacimento: l’analisi che fa del sé lo scompone in unità singole e semplici che ripetono e si ripetono «per soffrire meno pene e conseguenze del pensiero complesso».
Il Bambino il Genitore e l’Adulto, non potranno dunque mai incontrarsi in questo scontrarsi di nulla che sembra scavarsi una tana nella debole carne dell’uomo.
In tal modo l’autore imparerà (forse) a tollerarsi, e a tollerare gli inevitabili altri esseri viventi; creando vuoto in sé – abissandosi internamente per attutire il peso della sua stessa esistenza. E della colpa immanente che porta a sua volta.
Nulla che stringa e contenga, dunque, come dicevamo prima. Uno svuotarsi, un levare volume. Il logorarsi in quest’«esistere con dolo», nell’accogliere il fallimento del reiterare e reiterarsi nella reificazione della vita. La realtà è un alternarsi di deficit e mancanze, che crea terrore nel suo «darsi materiale».
La sofferenza che Pacini mostra è tanto più ingombrante quanto più esibentesi nel vuoto: sembra quasi agire come anti-biotico il susseguirsi dei testi nelle Ipotesi.
Eppure qualcosa sfugge, resiste. Persiste.
Il poeta cede a chi bambino lo è davvero; ora. Ora che invece Pacini è sì Adulto e Genitore – è padre.
E lo ammette: «(…) mio figlio», dice.
Il suo Io fa finalmente spazio a una vita. La più importante, sembra farci percepire sottovoce. Il dire sì a suo figlio, a quel sorriso spalancato privo di ogni male se non quello che può esserci proiettato dall’esterno.
Pacini cade in ginocchio vinto da qualcosa che non fa più parte di lui, ma parte da lui. Si dirà sempre il «rifiuto più ingombrante» insieme al resto della sporcizia nell’auto.
Ma avendo comunque detto sì.
Arianna Vartolo
Decifrare il primo passo sull’asfalto
come primo mandato del mattino.
Sono una costola dell’accaduto
ciò che sfioro minaccia di friare
in un domino di collassi frontali:
muri di smartphone, passi insicuri, stanchezze
raschiate dalle facce di chi incontro. Mente,
soda mentalità che ad ogni circolo di fiato
sedimenta sull’intento, i pulsanti cromati
la targa dello stabile, la pianta ornamentale.
Tra tutte le cose appese ce n’è una che escludo
la metto in quarantena nello sguardo:
non è sbagliata, è storta, punta altrove.
Non c’è rimedio per l’estraneità:
è una truffa assurda, celata nel sì
che mormoro distratto –
il sì che esorbita dall’evidenza
che le cose sono due, io solo una:
il colpo di tosse nervosa di un sasso
lasciato per sempre libero
al centro di una sala d’attesa.
(nebbia)
Io sono
la fine del tuo gioco su di me.
VI
Quanto a me, oggi ho detto sì al sorriso
sgranato di mio figlio che ha infranto
il mutismo dalla macchina chiedendo
di portarlo dal carwash.
Ho detto sì, stordito come sempre
nell’auto ancora oggi mai lavata
stravolta e polverosa: taralli, fogli vari
frantumi di plastica e cartone
insieme al rifiuto più ingombrante:
io, che comunque ha detto sì.
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