Ipotesi per una bambina cyborg – Lella De Marchi


Ipotesi per una bambina cyborg - Lella De Marchi

Ipotesi per una bambina cyborg, Lella De Marchi (Transeuropa, 2020).

 

L’aspirazione di Ipotesi per una bambina cyborg a tenere insieme i diversi strumenti di esplorazione della poesia e della filosofia è esplicitata già dal titolo, che da una parte allude al fondamentale Manifesto cyborg della Haraway e dall’altra con il termine “ipotesi” richiama a una forma di conoscenza che la filosofia classica considerava inferiore e provvisoria, ma che, nella sua possibilità intrinseca di riscritture e verifiche, si pone come formidabile antidoto al rigor di ogni sistema di pensiero totalizzante. Tale aspirazione si manifesta, inoltre, nell’offerta a fine libro di una “Bibliografia essenziale” – procedimento certo non consueto tra i poeti italiani – che mescola in modo creativo voci poetiche (come Celan o Cvetaeva), storici come Schiavone o sociologhe militanti come Marcasciano.

 
 

Con queste parole Maria Luisa Vezzali sigilla in chiusura i versi de Ipotesi per una bambina cyborg di Lella De Marchi. Versi che aprono con due importanti ed emblematiche citazioni:
 
 
non può nascere nulla dal nulla
Lucrezio
 
 
Linda, ciò che voglio dirti
è che le donne nascono due volte

Anne Sexton
 
 

E chiudono, come dice bene la Vezzali, con una Bibliografia essenziale che vuole dichiarare retroscena impegnativi ma non opprimenti. Fra le pagine infatti si annusano citazioni e riferimenti che vanno anche oltre la Bibliografia. Nella sezione (Ipotesi per un) autoritratto non si può non pensare, ad esempio, all’Autoritratto entro uno specchio convesso di John Ashbery.

Ipotesi fuorviante? Iper-lettura? Forse, ma nell’Ipotesi per una bambina cyborg il solo fatto che nasca un’ipotesi legittima la poesia stessa. Perché Lella De Marchi produce un respiro ininterrotto, musicale, poematico, che contrappone opposti e ripete i termini. E nella ripetizione trova la traccia di una musica filosofica dove esplorare concetti come maternità, donna, identità.

 
c’è sempre quest’ape che ronza beata che batte
in testa e sulla tastiera. più si avvicina più mi avvicina
ad ogni innata deviata divinità
ad ogni innata deviata felicità.
non guardarmi. nello specchio c’è il nome che porto.
è così bello pensarsi nude fare come
i lombrichi diventare dei fuchi. sull’erba verde
cantare canzoni sovrapporci senza illazioni essere
i mostri che amiamo. inventarci per come siamo.
credimi, bambina mia.
una chiave ci attende oltre ai confini. sopra innumerevoli
piani ogni giorno piove qualcosa. dal cielo piove
ogni giorno. piove l’acqua per i miei fagiolini.
 
 
 
 
le nostre apprensioni educano i nostri timori suggeriscono.
ma le nostre ossessioni s’incarnano.
non so dove sei. ti scrivo una lettera che forse non leggerai.
l’amore è una cura che non si cura è un corpo
mai detto soltanto due righe in più. oltre la battitura.
qualcosa si aggiunge a ciò che è dato in partenza
e la sete divampa anche dopo avere bevuto.
le nostre ossessioni s’incarnano nelle parole sono
parole sante e miracolose. ma sono come le uova
dobbiamo maneggiarle con cura.
ti scrivo una lettera che forse non leggerai l’ho scritta
da un posto che non conosco. forse l’ho scritta per me.
non guardarmi. nello specchio c’è il nome che porto.
 
 

Il nome che porto riporta in altre pagine, in maniera nemmeno troppo velata, a una straordinaria Antonella Anedda:

 
ti piace restare da sola non curarti del tempo e degli altri
non curarti del buio che scende dentro la stanza.
forse già sai che siamo in tanti per una sola finestra forse
già sai che il letto è un lago che non ha balaustra.
brulicante di atomi. in continuo fermento.
senza arsi senza tesi afferri l’onda sopra un piano ammetti
alla tua bocca la sorpresa il sogno l’illusione concedi
ai tuoi confini il circumnavigarsi.
ti sei cresciuta dentro tutta intera come una preghiera.
forse già sai che sei l’unico angelo che ti consola forse
già sai che non sei solo salva con nome.
la paura del buio si acquista. il tempo chiude dentro
a un cassetto la luce che fa il liquido amniotico.
 
 

Ma soprattutto colpiscono gli incisi, in Lella De Marchi. La maggior parte delle poesie si svolge infatti in un versificare esteso, lungo sulla pagina, inframezzato da corsivi in quasi ogni testo (a parte quelli brevissimi e pochi altri), chiusi sempre da un punto fermo che equilibra la mancanza di virgole in un volontario ritmo sincopato. Corsivi che non appaiono incisi ma riflessioni nella riflessione:

 

la bambina è una farfalla con le ali della casa.

 

dovremmo credere nell’aldilà siamo programmati per viverlo.

 

le parole sono vive le pietre sono vive soltanto a volte piove.

 

noi non siamo solo noi noi non ci bastiamo mai.

 

nella foto sorridi sembri un altro diverso più felice.

 

ci sono storie che non possono finire.

 

ti sei cresciuta dentro tutta intera come una preghiera.

 

sulla pista da sci scivoli leggera non toccata dalla paura.

 

dove tutto è normale qualcosa ti lega senza liberarti.

 

la stagione che ritorna non è mai la stessa.

 

la tua infanzia è l’infanzia del mondo.

 

chi ti ha generato non sempre ti assomiglia.

 

cammini al contrario abbracci la fine come un inizio.

 

sei il pasto preferito di tutti i Freud e di tutti i Lacan.

 

chiedi il gioco che non ti chiude in una scatola.

 

tu accogli il suo cenno il suo monito come nessuna.

 

è molto di più che una forma l’identità.

 

ogni volta c’è qualcuno che non mente, tranne te.

 

con il colore bianco hai dipinto nudo tutto il tuo orpo.

 

mandante replicante assassino complice amante.

 

nei postriboli di una città impossibile sono la Maddalena.

 

soltanto fin dove ci serve ce ne serviamo.

 

eppure Gregor Samsa la tua è una splendida metafora.

 

non guardarmi. nello specchio c’è il nome che porto.

 

non so dove sei. ti scrivo una lettera che forse non leggerai.

 

siamo la doppia immagine che può vedersi da sola.

 
 

Una riflessione sull’identità dell’essere umano attraverso una proiezione che non è espediente ma analisi. Lella De Marchi con acume e senza sconti spoglia il convincimento umano di sé per srotolarlo, squartarlo (nel senso etimologico del termine) senza ch’egli lo sappia, su un lenzuolo d’evidenza dove non ci sono risposte ma prese d’atto.

Così come nel Corollario quella stessa bambina che all’inizio è una farfalla con le ali della casa diventa teatro di se stessa e della propria verità. E con essa della nostra.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
 
 
la bambina cyborg gioca alla conta
la bambina cyborg non conta l’errore
la bambina cyborg si tradisce felicemente
la bambina cyborg fiorisce in assenza di luce
la bambina cyborg non si chiude nel mondo
la bambina cyborg ha un sorriso fecondo
 
 
seduta su tutti su sedie per tutti abitata da tutti con tutti si siede e sorprende
 
 
la bambina cyborg vive nel sonno
la bambina cyborg nasce nel sogno
la bambina cyborg nasce mutata
la bambina cyborg vive traslocata
la bambina cyborg non cresce patendo
la bambina cyborg non cresce infierendo
 
 
per estranei geni bagno di falene passaggio di dolci sirene infinita invenzione
 
 
la bambina cyborg si stacca da terra
la bambina cyborg si trucca coi fiori
la bambina cyborg si guarda da fuori
la bambina cyborg non teme la simbiosi
la bambina cyborg non è necessaria
la bambina cyborg non è accessoria
 
 
con una lente d’ingrandimento si sfiora si tocca si specchia nelle variazioni
 
 
la bambina cyborg è diversa da quello che è
la bambina cyborg non è un’equazione
la bambina cyborg si trova nella disuguaglianza
la bambina cyborg è risolta da sé
la bambina cyborg non è una causa
la bambina cyborg non è un’illazione
 
 
dentro la folla avvolta irrisolta congiunta si cerca ascolta ogni difetto che resta
 
 
la bambina cyborg non ti cade dalle braccia
la bambina cyborg cammina da sola e fa breccia
la bambina cyborg non è un’assenza giustificata
la bambina cyborg non è una presenza giustificata
la bambina cyborg non conosce il peccato
la bambina cyborg veste il suo costume adamitico
 
 
come un attore si accoglie poi canta la parte creata al delirio che non si racconta
 
 
la bambina cyborg ha i piedi al posto degli occhi
la bambina cyborg ha il cuore che le pulsa in testa
la bambina cyborg si trasforma in quello che tocca
la bambina cyborg non è un buco senza ritorno
la bambina cyborg non è una metafora
la bambina cyborg non è una parabola
 
 
senza contorno seconda sottratta cosciente insolita feconda indossa l’immonda
 
 
la bambina cyborg non sbatte la porta
la bambina cyborg non cuce uno strappo
la bambina cyborg è piena di vuoto
la bambina cyborg non teme l’ignoto
la bambina cyborg è senza passato
la bambina cyborg produce silenzio
 
 
nello spazio improvviso e alienato iniziale e finale con la fronte nel petto è vetro
 
 
la bambina cyborg non inciampa nel senso
la bambina cyborg non si aggiusta col tempo
la bambina cyborg non si contrae in un unico segno
la bambina cyborg parla da sola
la bambina cyborg sorride alla luna
la bambina cyborg canta e suona la lira
 
 
l’anima vede sente annusa respira nell’aria l’anima vive che non si nega
 
 
la bambina cyborg s’innamora dell’uomo-ragno
la bambina cyborg accarezza il serpente
la bambina cyborg è un androgino
la bambina cyborg è innocente
la bambina cyborg adora il tranello
la bambina cyborg è una sfida all’inganno
 
 
senza difesa indifesa mai nata mai resa a brandelli tra abili mani che sanno
 
 
la bambina cyborg scompare continuamente
la bambina cyborg si ciba del suo buio
la bambina cyborg evolve organicamente
la bambina cyborg non si conserva
la bambina cyborg non si consuma
la bambina cyborg non si disperde
 
 
manciata di futuro goccia di terra riavvolta dalla carta nella vita senza mai posa