IL VELIERO CANNIBALE 17 – ACUSHNET II

IL VELIERO CANNIBALE 17 - ACUSHNET II

Winslow Homer, Sharks

 

 

Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg

 

 

Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.

Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.

 
 

ACUSHNET – Parte seconda

 

Era in quei momenti, più che in altri, che Pease sentiva di occupare il posto che gli competeva. Era una sensazione irripetibile. Nella sconfinata solitudine che li circondava adesso, al di sopra della massa acquea dove galleggiavano non c’era uomo che avesse più potere di lui. L’Atlantico era il firmamento; e l’Acushnet un astro, il suo, un mondo il cui peso gravava intero sulle sue spalle americane, larghe e stanche.

Poco prima, era stata certo la sua autorità a permettergli di far armare la lancia senza quasi dover gridare un ordine, bastando la sua sola presenza sul ponte e il suo sguardo che si era posato su coloro che avrebbero composto l’equipaggio, uno ad uno, per organizzare la piccola spedizione diretta verso la barca sull’orizzonte.

Nessuno si era voltato verso di lui; nessuno aveva commentato le poche disposizioni che aveva impartito. Era ferma convinzione di Pease che quell’atteggiamento, che altri avrebbero scambiato per indifferenza o insubordinazione, fosse invece rispetto; e non tributato per timore o soggezione, ma per fiducia. Si rifiutava di interpretare altrimenti i silenzi di Raymond il primo ufficiale, le iniziative personali di Hall, lo sguardo obliquo che Galvan gli riservava ogni volta che lui, il capitano, non prendeva posto in una delle lance che venivano gettate all’inseguimento delle balene, preferendo restare a presidiare il suo regno.

Decise di attendere il ritorno della scialuppa insieme ai marinai, sulla murata di dritta. Era trascorsa quasi un’ora senza che gli riuscisse di scorgerla, così quando il giovane Greene gli era passato rapidamente accanto, lo aveva richiamato ordinandogli di recuperare il cannocchiale nella sua cabina e di portarglielo subito. Cinque minuti dopo il ragazzo non si era ancora fatto rivedere. Pease notò che stava ricevendo istruzioni da Galvan, dall’altra parte del ponte; la parlata del terzo ufficiale, traviata dal suo portoghese coloniale, che in una stessa frase regalava ad alcune parole musicalità e ad altre durezza, gli impedì di comprendere quello che diceva, ma non di sentir ripetere il suo nome un paio di volte.

Tutto però perse importanza in un attimo, perché la voce di Enoch Read, il gabbiere, nuovamente fendette l’aria, annunciando al mondo sottostante l’inizio del secondo atto del dramma. La lancia era riapparsa e dietro di lei un’altra barca. Quando furono abbastanza vicine fu chiaro che la seconda imbarcazione era trainata dalla prima. Era un battello, forse un piccolo peschereccio, squassato dalla tempesta, incappato in una catastrofe da cui in qualche modo era uscito stravolto ma vivo, come un reduce di guerra che ha pagato con una gamba, un occhio o un braccio il biglietto di ritorno. Mancava del timone e dell’unico albero, del quale sopravviveva un moncherino frastagliato. A bordo non si vedeva nessuno e sulla lancia Pease contò gli stessi otto che erano partiti.

Quando le due barche si portarono sotto la nave, tutto l’equipaggio era addossato alla murata. Hall risalì sulla Acushnet accompagnato dall’Irlandese, prima degli altri, per fare un primo breve rapporto a Raymond e al capitano.

Avevano raggiunto il relitto prima di quanto immaginassero, perché seppure alla deriva e nonostante la bonaccia sembrava avanzare verso di loro trasportato dalla corrente. Era circondato dai pescecani e non era stato facile salire a bordo, perché gli squali vi si ammassavano intorno famelici, come davanti alla carcassa di una balena; gli si lanciavano contro mordendo il fasciame, neanche fosse carne viva, e il sangue che zampillava dalle stesse ferite che si provocavano urtando la carena e addentando la fiancata, li rendeva ancor più agitati e aggressivi; ve n’erano alcuni che per il troppo impeto saltavano con l’intero corpo fuori dall’acqua.

Barnet aveva usato l’arpione come una picca facendone strage e solo in quel modo si erano dispersi, tanto da consentire di accostarsi e ispezionare la coperta. Si sarebbe potuto lasciarla alla deriva, ma avevano deciso di assicurare una corda a quello che restava del pulpito di prua e trascinarsela dietro come un trofeo.

Pease aveva ascoltato con attenzione il resoconto. Attese che il resto dell’armo e la lancia, agganciata all’argano, riprendessero il loro posto sulla baleniera; quindi, usando lui stesso un gancio del paranco, si era calato dalla nave per visitare di persona il relitto, destinato, questa volta davvero, a essere lasciato in balia della corrente.

Senza attardarsi sul ponte, imboccò il boccaporto e si affacciò nel piccolo vano sottocoperta.

Senza sorpresa vi trovò un uomo.

 
 

 
 

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