IL VELIERO CANNIBALE 13 – FINISTERRE

Bozza automatica 2843

illustrazione di Godspeed by Rockwell Kent

 

 

Malinconie, anacronismi e moralismi del Capitano Peleg

 

 

Moby Dick è il libro che più si avvicina al Libro dei libri. In nessun altro si disputa intorno all’esistenza di Dio, o alle prove della sua inesistenza. In uno l’immensa Arca; nell’altro l’oscuro Pequod, che è di Achab, ma non è Achab, perché il Pequod è il suo proprietario, il quacchero, il dimenticato Peleg, che l’aveva addobbato “come un barbaro imperatore etiopico… Era fatto di trofei. Un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”.

Parafrasando le parole usate da uno scrittore per parlare di un altro scrittore, il nostro Capitano Peleg, risorto con un artificio, è un naufrago del passato che il Fato ha proiettato sulle sponde di un altro tempo. A cura di Frescobaldi MacIntyre.

 

 

FINISTERRE

 

Questo vento veniva da ali
E i giorni passavano ululando all’orizzonte
Come un veliero giovane
Ho attraversato molte tempeste
Fra canzoni di marinai

(Vicente Huidobro, Veliero)

traduzione a cura di Stefano Strazzabosco

 

 

Quando il capitolo del libro in cui si parlava per la prima volta di me è terminato, mi sono eclissato, e tuttavia sono rimasto sino alla fine come semplice spettatore delle vicissitudini bibliche che l’architetto, lo scrittore, riservava ai personaggi che continuavano, pagina dopo pagina, a governare le vele, assecondare le ossessioni di Achab, vedere ovunque presagi, morire con i polmoni colmi di oceano.

Quando anche il libro e la storia sono giunti all’epilogo, non c’era più nulla da fare. Un libro per un personaggio si chiude, per lo più, quando un editore, se non lo rifiuta, lo pubblica. L’imprimatur è il nostro requiem. Moriamo in latino.

Tra di noi c’è chi si rassegna o semplicemente riesce ad accontentarsi del ricordo dei pochi istanti in cui si è vissuti attraverso le parole scritte e lette; e chi come me,  invece cerca un modo per continuare.

È così che sono diventato vento, o meglio che mi sono mischiato a lui, a un aliseo, e ho viaggiato sul globo terracqueo.

Quando incontravo una nave, scendevo fino a sbattere contro le vele e scivolare invisibile sul ponte. A bordo restavo il tempo che ritenevo opportuno: allora, riprendevo il vento e andavo via.

È su queste altre navi che ho vissuto davvero; ho conosciuto molte facce e ho udito molte voci e storie, ma nessuna che interferisse col mio viaggio, che giorno dopo giorno ha iniziato a somigliare al vagare obbligato di uno spettro, o a un sogno.

Tranne una volta, una notte, sul ponte di un brigantino che trasportava caffè.

Ero arrivato un pomeriggio ventoso, e me ne ero rimasto accovacciato sul ponte, in un angolo. Era appena passata la mezzanotte. So leggere le stelle. Da un boccaporto era spuntato un vecchio, un galiziano che avevo notato qualche ora prima e che chiamavano Finisterre.

Si era acceso la pipa; capii poco dopo che fungeva da richiamo e da orologio. Tirò il tempo necessario a quelli dell’equipaggio che erano svegli, per radunarglisi intorno.

Finisterre parlava. Quello era il suo compito sulla nave. Era troppo vecchio per fare altro. Apparteneva al brigantino, faceva parte dell’attrezzatura e dell’alberatura.

Quella notte chiese a ciascuno dei presenti di dirgli quale uccello avrebbero scelto di essere per volare.

Gabbiani, per lo più. E poi aquile, falchi, folaghe. Un passero addirittura. Un avvoltoio, dichiarò il comandante, accorso al pari di tutti.

Non siete marinai, siete qui per caso, uomini prestati al mare, nient’altro – aveva detto Finisterre.

Nessuno fiatò. Né si risentì: aspettavano.

Siete l’albatros di Baudelaire, il principe delle nubi che catturato dalla ciurma traballa impacciato sulla tolda, trascinando le lunghe ali ripiegate sulle assi del ponte, come fossero remi – aveva continuato il galiziano – O peggio, l’albatros della ballata di Coleridge, abbattuto a balestrate, ridotto a poltiglia di ali e sangue, a maledizione di naviganti, ad amuleto spezzato, richiamo di bonacce e sventure. Nella letteratura di mare, è la fregata il sovrano del cielo.

A chi gli chiedeva il perché, Finisterre con una voce che mai dimenticherò, aveva risposto con Whitman:

 

Alla magnifica fregata:
Tu che hai dormito l’intera notte nella tempesta,
svegliandoti rinfrancato sulle tue forti ali,
(scoppiò la selvaggia bufera? Sopra di lei t’innalzasti,
riposandoti sul cielo, tuo schiavo, che ti cullò),
o punto azzurro che lontano, lontano, in cielo vai alzandoti,
io ti osservo ora che dal ponte della nave emergi alla luce,
(io stesso, una macchia, un punto nell’immensità galleggiante del mondo).
Lontano, lontano sul mare,
dopo che le fiere derive della notte hanno cosparso la spiaggia di naufragi,
con il giorno che riappare come adesso, lieto e sereno,
con la rosea alacre alba, il sole fiammeggiante,
con la limpida distesa di aria cerulea, anche tu ricompari.
Tu nato ad emular la brezza (tutt’ala tu sei),
a lottar col cielo e la terra, il mare e l’uragano,
tu, nave aerea che non ripieghi mai le tue vele,
roteando giorni, settimane, mai stanco, sempre avanti, attraverso spazi e reami,
che di notte guardi il Senegal, al mattino l’America,
che ti diverti fra i guizzi dei lampi e il rumore del tuono, i
n mezzo a tutto questo, nelle tue commozioni, tu possiedi l’anima mia…
Quali gioie! Quali gioie sono le tue!

traduzione a cura di Frescobaldi MacIntyre

 

 

Non basta, vecchio – aveva obiettato il capitano, con un tono provocatorio, ma da sfida bonaria, quasi recitando una parte.

 

E Finisterre:

 

Quella nera fregata che rotea nella luce
sopra la bianca vela più alta, della nave nera, nuvola oscurata dal sole
noi che voliamo basso abbiamo ali per ascendere alla sua altezza?
Nessuna freccia la può raggiungere; nemmeno il pensiero può accedere
alla quiete suprema nella distesa del suo regno.

traduzione a cura di Franco Venturi

 

 
Di chi è, domandò il capitano.
È Melville, rispose il vecchio.
Fu una folgore sentir nominare mio padre, colui che mi ha sognato.
Per lasciare la nave decisi di non riunirmi all’aliseo, che mi abbandonò per sempre.
Attesi il volo di una magnifica fregata.
Che non è mai arrivata.
Sono ancora qui.