Il tuo è un mancare continuo – Clery Celeste



 
 
Il mio è il panico della chiusura
dell’ipermercato, quando le
cose stabiliscono un urlo morboso
e la carne in scatola si apre
le ferite. Dormono tutti col cappio
appeso, è solo questione
di tempo.
 
 
 
 
Accade che siano le persone di mezzo
come una brava infermiera, un medico
e il dolore smette di farti impressione
come un catetere chiuso
e l’urina rimane a mezz’aria nel tubo
“Ho smesso di guardarli in faccia
magari ricordo i nomi”
ma finisci il lavoro
e il dramma è essere bravi
non sentire niente
stare a metà strada dal dispiacere
di curare qualcuno che conosci
ma con la distanza dei conoscenti.
 
 
 
 
Il tuo è un mancare continuo
dal bordo del letto
allo spigolo opposto della tavola.
Tutto prende la forma del grigio
le cose rifiutano la dimensione
piana dello spazio ma quando ritorni
le linee ritornano curve
nell’esatta sospensione del sorriso.
 
 

(Clery Celeste, “La traccia delle vene”, Pordenonelegge – LietoColle, 2014)

 
 

Il dettato di Clery Celeste, in questi testi tratti da “La traccia delle vene” (Pordenonelegge – Lietocolle, 2014) si distingue per la precisione chirurgica, lucida e apparentemente spietata.

L’esperienza dell’autrice, radiologa, coinvolge alcuni elementi che potremmo ascrivere a una sorta di biografismo professionale, ma che, in sostanza, diventano occasione per una riflessione estremamente limpida e disincantata.

Nel primo testo si avverte distintamente un sentore di crisi, che trasfigura dalle cose al panico dell’urlo morboso. L’elemento dell’ipermercato si fa simbolo delle nevrosi urbane e contemporanee, e dello smarrimento esistenziale di fronte alla disumanizzazione cui costringe la vita di ogni giorno – di cui la carne in scatola, oggetto con cui abbiamo in comune l’elemento organico – diventa indizio e sintomo. La chiusa non lascia speranze, trasmettendo una consapevolezza lucida della fine e della nostra provvisorietà, che ricorda T. S. Eliot (“We who were living are now dying / With a little patience.”).

Nel secondo testo emerge l’esperienza professionale, che impone un distacco dal dolore e dalla sofferenza, “ … e il dramma è essere bravi / non sentire niente”. Questo esercizio di allontanamento, questo raggiungere il non sentire niente, è al contempo narrazione di una vicenda lavorativa e nitida riflessione esistenziale, quasi una soluzione al panico di cui sopra. Senza perdere completamente la propria umanità, sia chiaro, è possibile “stare a metà strada dal dispiacere / di curare qualcuno che conosci / ma con la distanza dei conoscenti”: quel tanto che basta per riuscire a reggerne il peso e restare razionali.

L’ultimo testo riassume e ripresenta queste istanze in una dimensione privata: l’assenza di senso e di prospettiva, simboleggiata dalla mancanza della persona cara, dà ad ogni cosa la forma del grigio. Di nuovo le cose non sono un oggetto passivo, ma soggetto attivo: prima stabilivano “l’urlo morboso”, mentre qui “rifiutano la dimensione piana dello spazio”, quasi come se l’io del testo ne subisse una sorta di tremenda e ineludibile influenza.

Eppure nella chiusa di quest’ultima poesia si manifesta una proiezione di senso e di significato, innestata nell’immagine del ritorno della persona amata, che restituisce una dimensione curvilinea all’apparenza della realtà – che prima appariva piana – “nell’esatta sospensione del sorriso”.

Questa esatta sospensione è al contempo gesto puntuale e insostituibile, e incertezza fragile e provvisoria (o a contrario, certezza della sua precarietà e provvisorietà): tale dinamismo non ammette alcuna certezza, in un “mancare continuo”; eppure, è un’occasione troppo preziosa per viverla senza coinvolgimento, con la distanza che bisogna riservare solo agli aspetti più terribili dell’esistere.

 

Mario Famularo