Il poeta andava fucilato. Poesie scelte 1964-1971 – Rafał Wojaczek

«Era primavera, era estate, e autunno, e inverno / C’era un poeta che le stagioni pazientemente incantava». L’incipit di Była wiosna, było lato (1969) brilla, adamantino, sul retro de Il poeta andava fucilato. Poesie scelte 1964 – 1971 (Delufa Press, 2024), prima edizione italiana dedicata all’opera di Rafał Mikołaj Wojaczek (Mikołów, 6 dicembre 1945 – Breslavia, 11 maggio 1971)1. Tradotto e curato da Francesco De Luca e Bożena Topolska, il volume propone la scelta di una sessantina di poesie composte tra il 1964 e il 1971; esso si apre con una toccante Lettera di Dagmara Janus – figlia di Wojaczek – e si chiude con le elegantissime postfazioni di Maciej Melecki, direttore dell’Istituto Wojaczek di Mikołów, e Krzysztof Siwczyk, poeta e interprete del lungometraggio Wojaczek del 1999, diretto da Lech Majewski. Finito di stampare nel novembre 2024, Il poeta andava fucilato inaugura la collana di poesia della Delufa Press, una neonata casa editrice romana che ha già all’attivo diverse collane dedicate anche a libri di narrativa, arte, scienza/psichedelia e musica.

Come si legge nella postfazione di Melecki all’antologia, per Rafał Wojaczek la poesia «è un’autoterapia consapevole. Minacciato per anni da stati d’ansia che sfuggono alla definizione, cerca di dar loro un nome, come se credesse che, una volta nominati, cesseranno di essere minacciosi e che, rivelati dalle parole, esisteranno solo come creazioni del linguaggio e dell’immaginazione, non della vita e della reale ansia» (Tymoteusz Karpowicz, Debiuty. Rafał Wojaczek, „Poezja”, 1, 1965, p. 65, traduzione di Francesco De Luca e Bożena Topolska). Dunque, la minacciosità e pericolosità del vivere trasudano dalla poesia di questo autore scomodo e controverso – anzi, ne innalzano la parola, scagliandola con veemenza sulla pagina –, per la quale egli aveva sempre nutrita una certa fede, tant’è che, affacciatosi all’abisso, nella chiusa di Finis Poloniae (1968) scrisse «la morte iniziò a darci del tu» (p. 63).

Quasi «con un urlo disperato» (p. 81), la poesia di Wojaczek è puntellata dal confine tra l’evoluzione di un io lirico inquieto e l’uso, tanto irregolare quanto profondamente affannoso, di versi liberi e tendenti alla narratività. In effetti la penna di Wojaczek, al quale venne diagnosticata la schizofrenia, crea giocando sul precipizio dell’angoscia, tra il simbolo e la metafora, elaborando un linguaggio dai tratti ascetici, pur restando costantemente in bilico tra la (auto)consapevolezza del destino umano e la tragedia dell’esistenza stessa.

Interessante ciò che Krzysztof Siwczyk ci restituisce circa la percezione esistenziale di Wojaczek, parlando del suo «tormento comico» (pp. 200-201), poiché ne paragona la sensibilità a un pilastro del Novecento nostrano, ossia a «Eugenio Montale nella sua poesia “in negativo”: “Ora superflui sono i documenti,/ ora superfluo è anche il meglio./ Non c’era nulla, assolutamente nulla dietro di noi,/ e nulla abbiamo disperatamente amato più di questo nulla”» (p. 201).

Oltretutto, Wojaczek è stato indubbiamente un poeta disturbante, che abbracciava una visione corporea e insieme spirituale, ma è stato anche poeta dell’erotico, del corpo, della sensualità e del mortifero; sebbene sia stato spesso criticato perché le sue prime raccolte sono state interpretate come pornografiche, a differenza delle sue ultime opere, uscite postume, che invece ne sancirono definitivamente il successo.

Contrariamente a quanto si possa supporre, Wojaczek non scriveva sempre ubriaco, anzi il contrario. Quando scriveva era quasi sempre lucido. Era molto metodico e professionale.

Nella prima parte di Finestra, composta nell’agosto del 1966, Wojaczek scrive che «La morte è ermafrodita» (p. 45), cioè annullamento, dissoluzione irreversibile e abissale:

Finestra
I

 
La testa è fredda la Stella raffredda l’esofago
solo la finestra brucia nel sangue
Mi piace essere un estraneo sotto la Tua finestra
come un nato a metà.
 
Penso al Tuo ventre nascondo
le mani di dietro
 
Ora controllo i miei lineamenti
come li sistemassi
con le tue labbra.
 
La morte è ermafrodita.

 

Uno dei testi più lancinanti dell’antologia, in cui Eros e Thanatos rimescolano le carte dell’io, e la tematica mortifera si desta a confondere ulteriormente ogni confine possibile fra la soggettività del poeta e ciò che ne sta al di là. L’apertura alla morte è un lancio del sé nel vuoto, a nudo, a freddo, in questa contrapposizione di razionale e irrazionale, dove il calore della soglia, o del desiderio, si oppone a una più gelida e rigida freddezza mortifera, esposta, sì, ma in bilico tra l’azione e la soppressione del desiderio stesso. L’eros, al pari della morte, acuisce la sua intensità, dissolvendo l’identità del poeta nel suo tentativo di ricomporsi attraverso l’azione dell’altro, attraverso l’amore agito per mezzo delle labbra, come se la sensualità fosse l’ultima forma d’arte in grado di prestarsi a modellare un residuo d’identità, che pure è inesorabilmente destinato a disfarsi nella morte, nella fine, in cui tutto è confuso e privo di genere, poiché la chiusa sancisce l’ermafroditismo della morte, che disperde, annulla e, forse, insieme unisce femminilità e mascolinità, come avviene ne La ballata del sangue vero (pp. 77-79). Con questo testo, Wojaczek sfida qualsivoglia tabù e costruzione ideologica sociale convenzionale, in quanto il sangue è esso stesso inteso come un’essenza primitiva e primordiale slegata da qualsiasi identità di genere, etnia, religione, eccetera, poiché il sangue è «senza bandiera» (p. 79):

non femminile e non maschile
né sangue nero di ragazza
non arterioso né venoso
non sterile né sanguinoso
 
indolore e in nessun secchio
non in ospedale né allo scannatoio
su nessun campo di battaglia
su nessun lenzuolo
 
sangue non ammaestrato
che abita la gabbia del polso
ai regolamenti del cuore
ubbidiente e misurabile […].

 

Di un altro tema declinato con ossessività da Wojaczek – quello delle poesie mascherate in cui il poeta-demiurgo elaborato nella raccolta Un’altra favola (1970) si attiva diversamente attraverso la voce di una donna, che si fa soggetto e portavoce della sofferenza, ma anche specchio del poeta, o trascendenza, mescolando sacro e profano –, ce ne parla Maciej Melecki nella postfazione Rafał Wojaczek: “Essere un poeta: essere in grado di fare qualsiasi cosa”. Infatti, Melecki scrive che, come dimostra una serie di poesie in cui:

«il soggetto lirico è una donna – incluse nell’ultimo volume del poeta, Che non c’era – incontriamo la figura finale di questa trasformazione. Si parla di essere una poetessa – così come di essere poeta. Nonostante tutte le precedenti suggestioni e interpretazioni puntassero a una trasformazione della mascolinità dell’autore in una femminilità nascosta, in queste poesie il personaggio femminile creato da Wojaczek descrive il dolore e la sofferenza derivanti dalla perdita dell’amato poeta, parlando della sua cupa esistenza, che si svolge al confine tra sogno, realtà e immaginazione. Sono poesie indubbiamente ferite, storpiate dalla mancanza di una presenza, che cercano nelle immagini postume e nelle evocazioni erotiche delle tracce fortemente sentite, […]. Versi sulla poesia e sulla scrittura, poesie fortemente creative, ma anche versi sui doveri del protagonista e sul destino del poeta stesso, e, infine, poesie “al femminile”, si presentano come un insieme di contenuti coinvolgenti, creati senza mezzi termini e non casuali. In ciascuna delle sue opere, possiamo vedere chiaramente fino a che punto fosse cruciale scrivere poesie in una disposizione programmatica, assunta, per così dire, dall’alto» (cit. alle pp. 191-192).

Inoltre, nella chiusa del testo che dà il titolo all’antologia della Delufa press leggiamo che «Il poema è qualcun altro / Ma se sia una lucertola / O un vescovo, anche questo è colpa mia» (p. 51). Emblematica, in questa direzione, appare altresì la poesia che chiude l’antologia, Chi è questo che mi appare allo specchio (p. 165):

[Chi è questo che mi appare allo specchio]
 
Chi è questo che mi appare allo specchio
Non una donna né una persona
Di nebbia, ma così crudelmente se stessa,
Che il posto nell’almanacco finora è vuoto?
 
Chi è questo che dal mio bicchiere
Bevendo non un ubriacone è, anche se
Raccolto dalla polizia dal fango
È preso come compagno di gilda?
 
Chi è questo che con la mia penna
Scrive le mie poesie
E nel mio letto prende mia moglie?
Chi è questo che è appena uscito?

 

Qui il poeta polacco imbastisce un accesso all’unica potenziale forma di verità nuda, cosmica, ricomponendola attraverso la ferocia e il rigore della poesia, nonché per mezzo della sua urgenza espressiva: ecco che le parole, sulle pagine, non si concedono mai al lettore come fossero un mero ornamento, ma al massimo possono soltanto prestarsi a squadernare; ecco, che la scrittura di Wojaczek rima con fenditura, coincidendo spesso con una lacerazione, lasciando traspirare la materialità del verso. L’opera di Rafał Wojaczek ha sempre portato con sé l’ustione dell’eredità in versi modellata sulla scia del connazionale Rożewicz – a cominciare dal suo esordio avvenuto nel 1969, che è stato caratterizzato da una forte e costante circolarità tematica, dove uno dei temi dominanti è l’ossessione, per l’appunto, che dà alle poesie un taglio incendiario, quasi asfissiante. Invece, alla versificazione più acerba del poeta polacco seguirà una ricerca letteraria volta alla (ri)strutturazione della sua poesia secondo quelli che sono i criteri del ritmo, per esempio tramite l’uso consapevole della rima.

Morto all’età di appena 25 anni (per l’esattezza, 25 anni, 5 mesi e 5 giorni) – dopo vari tentativi di suicidio, con l’ultimo gesto –, i versi del giovane e tormentato Wojaczek ancora oggi sono capaci di incantare, a distanza di oltre un cinquantennio, poiché egli è un poeta con la “p” maiuscola, del quale i versi e la biografia, assieme, lo avvicinano alla forte complessione dei poètes maudits, in particolare a Rimbaud (in questa direzione è emblematico persino il titolo della prima silloge del ’69, Stagione). Tant’è che la disamina Charles Baudelaire e Rafał Wojaczek. Due poeti maledetti a confronto, a cura di Mauro Tucciarelli (https://delufapress.com/charles-baudelaire-e-rafal-wojaczek), evidenzia questo aspetto cruciale della ricezione del poeta polacco, e scrive che «Baudelaire e Wojaczek affrontano l’angoscia con stili diversi, ma con risultati simili: un senso di oppressione ineluttabile. Baudelaire usa una struttura classica e simboli cosmici per rendere l’angoscia un destino universale e immutabile. Wojaczek, con il suo linguaggio diretto e corporeo, trasforma l’angoscia in un’esperienza intima e viscerale. Se lo Spleen è una prigione mentale che schiaccia il poeta, La ballata dell’angoscia è un mostro interiore che lo divora. Due visioni complementari di uno stesso baratro» (QUI). D’altro canto, Wojaczek scrive dell’angoscia proprio questo: «senza di essa noi non siamo, e lei / senza di noi non spaventa» (La ballata dell’angoscia, ne Il poeta andava fucilato, cit. a p. 107), esattamente come il dolore.

Eppure, oltre la superficie del dato biografico (come suggerito anche dal volume autobiografico in prosa intitolato Sanatorium del 1968), e più oltre dell’estremità dell’ultimo gesto, emerge qualcosa di più profondo: la volontà, a tratti sacrificale, di trascendere il confine della parola poetica, totalizzante. Difatti, per Wojaczek la poesia è anche questo: «neve verde come fosforo oppure osso / di un albero tarlato» (p. 107); è violenza: assorbe tutto del corpo, della depressione, della dissociazione che urla il suo slancio (auto)distruttivo e frammentato contro il mondo borghese polacco degli anni ’60-’70, pur di trovare un senso alla vita animata dal sangue che «così strisciando con pazienza / […] /nutrendosi di aghi di stelle espande la sua sfera» (p. 79).

Perché ciò che brucia nelle sue pagine non è solo la vita che vi si contorce di comico tormento, bensì il desiderio, tragico, testardo, di strapparle un senso restando Sempre maturi, nei «pieni cassetti del cuore a fare i conti con la notte» (p. 127).

Vernalda Di Tanna

 
 
Collina
o
Eroe nazionale

 
                                       La Polonia è una grande cosa
 
 
C’è una collina di sangue femminile sotto cui celerà la sua morte,
alcuni ricordi, due sconfitte – come un cane nasconde le sue ossa –
             e, superati i recinti,
             affronterà la Polonia.
 
E comincerà dalla mano – nuvola a seminare una luce pesante
come il pugno del polso nella pietraia sotto il teschio – e con gran piede
             – come lo strascico di una sposa –
             giungerà in Europa.
 
Più indulgente della graziosa morte
in sogno – il suo silenzio inconsciamente sarà domenica:
             speranza per i morti ammazzati
             e fuga per i vivi.
 
E poi si annoierà e allora se la ride
             – il sorriso cadrà con la neve.
 
1967
 
 
 
 
 
 
Buonanotte
 
Buonanotte, ecco la Tua casetta
– vorrei che fosse di nuovo la mia.
Ecco il Tuo cuore, un grumo di luce
nella culla buia del Tuo corpo.
Tu non hai paura del morto ammazzato –
poiché sulla soglia del Tuo corpo
oggi è di ronda una guardia insonne.
Ma anche se c’è un padre morto
posso passargli accanto, grande – annuisce.
I Tuoi capelli avrebbero parlato,
gli occhi chiamano la notte per nome
ma so: la notte dirà alle mie labbra:
“Piegati – finché non toccherai con labbro muto
– le spegnerai il cuore”. Quindi: buonanotte.
 
 
 
 
 
 
Un certo comò, cioé
 
Quanti la morte cassetti ha!
Nel primo Si conserva le mie poesie
Con cui me la conquisto.
 
Nel secondo cassetto sicuramente
Conserva un ciuffo di capelli
Dai tempi, quando avevo cinque anni.
 
Nel terzo ancora il lenzuolo
Della mia prima notte di polluzione
E il certificato di maturità.
 
Invece nel quarto raccoglie le ricevute,
Solleciti di pagamento e le sentenze
“Nel nome della Repubblica”.
 
Nel quinto le recensioni, le opinioni,
Che, per divertirsi, legge,
Quando è malinconica.
 
Deve anche averne nascosto bene uno,
Dove riposa, la cosa più sacra:
Il mio atto di nascita.
 
Ma il più basso e il più grande
Che da solo si estrae con difficoltà –
Mi farà perfettamente da bara.
 
1970
 
 

 
 
 
 

1 Per ulteriori approfondimenti, Cfr. De Fanti, Silvano. 2001. “‘Più che parole’. Sulla poesia e la vita di Rafał Wojaczek, poeta maledetto del nostro tempo”, in Studi in memoria di Neva Godini, a cura di Remo Faccani, pp. 99-112. Udine: Forum.

 
 

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