Il misantropo dei Sargassi – Andrea Mella


Il misantropo dei Sargassi, Andrea Mella (Edizioni del Foglio Clandestino 2018).

Andrea Mella consegna al lettore, attraverso le ottime edizioni del Foglio Clandestino, un’opera corposa eppure lieve, pulita nella forma tanto da non sconvolgere quasi mai il lettore con peripezie stilistiche o ribaltamenti inaspettati. Ciò che più si apprezza in questo libro è proprio il tenue accompagnare il lettore verso dopo verso in una consapevolezza poetica sicura, a tratti magistrale, capace di utilizzare le figure retoriche senza dichiararle.

Se infatti spesso ci troviamo di fronte, altrove, a testi di autori che devono calcare l’assonanza per farla sentire degenerando nella cantilena, o addirittura evitano appositamente la riproduzione di qualsivoglia suono per opporsi (o credere di opporsi) a una presunta antichità della metrica, o gettano qua e là una rima imperfetta lasciando il dubbio di una posa poetica, in Andrea Mella pagina dopo pagina diventa quasi un piacere ri-trovare i suoni proprio dove te li aspetti. Perché in Il misantropo dei Sargassi, pur essendoci testi di lunghezze spesso molto diverse tra di loro e pur trattandosi di un’opera non breve (sono 86 testi), lo stile è immediatamente dichiarato e posto con chiarezza. E successivamente variato senza sconvolgimenti, senza peripezie.

Allo stesso modo però non possiamo non constatare che l’opera tratta argomenti ben poco accomodanti per il lettore attento. Pur evitando una dichiarazione di pessimismo e/o nichilismo Andrea Mella non edulcora la realtà ma anzi la affronta, la sveste, la osserva con un disincanto che ad oggi potremmo quasi dire generazionale. C’è tutta la pena, termine usato dal Mella a inizio opera, dell’esistere in quanto uomo che ha iniziato da tempo ad osservarsi e ad osservare ciò che lo circonda, e lo ha accettato e attraverso la parola poetica ha cercato di dargli un senso. Senza impreziosimenti falsificanti, senza equivoci volontari.

D’altronde ormai non è più nemmeno possibile non osservare la realtà, a differenza ad esempio degli anni 80/90 dove l’opulenza provvisoria era una buona scusa per chiudersi gli occhi, e Andrea Mella lo dice reiterando l’immagine madre del libro, e forse quella più terribile: l’acqua. Quella stessa acqua in cui Eraclito affermava non essere possibile bagnarsi due volte (l’inevitabile scorrere del tempo e delle cose che cambiano e ci cambiano a prescindere da noi stessi). Quella stessa acqua che componeva il fiume che tutto travolge macchiavellico (la vita, il destino). Quella stessa acqua dove muoiono i migranti diretti a Lampedusa del 2013 (citati specificatamente dal Mella nella seconda sezione/poemetto).

Tutto travolge, e non possiamo far altro che osservare tentando di incidere nella memoria, attraverso la poesia, una eco che sia significato, monito, sussulto in chi legge (come dice l’autore). Un sussulto, come si è detto, più per la realtà che per lo stile, più per la verità che per la finzione rendendo il Mella un autore estremamente onesto intellettualmente, a prescindere da quanto poi la critica e i lettori vorranno far sopravvivere quest’opera.

Il misantropo dei Sargassi si chiude con una terza sezione che da titolo al libro. Una conclusione volontariamente aperta che lascia il dubbio di un sottointesa concezione aporetica della risposta, della vita stessa. Testi che con un’apprezzabile eleganza fotografano, sempre sull’onda dell’immagine/metafora dell’acqua, presunte origini e destinazioni della vita appoggiandosi su immagini estremamente reali. Il bitume, un acquario, i capelli nel piatto, un edicolante, una fabbrica di pesce, eccetera. Filippo Parodi, nella sua postfazione, suggerisce un rimanere radicato, intrappolato nella condizione di angustia e di staticità che, inesorabilmente, a livello ontologico si direbbe gli appartenga.

Una poesia pregna di realtà tesa a lasciare un segno senza giudizio ma vivendo, talvolta sopportando, sopravvivendo a differenza di altri (i migranti morti in mare). Una poesia che si concentra sul messaggio e sul proprio tempo più che sul lettore, sull’effetto da provocare nel lettore. Perché, forse, per capire meglio la vita (senza per questo trovarne risposte) bisogna essere veramente un po’ misantropi e non allinearsi al senso comune, guardare le cose che scorrono da una certa distanza, misurarle, per arrivare a possederle così a fondo da dirle.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
La piena
 
Si abbandonano, tra i rami del fiume
e i tracciati delle mura, nella via delle volte
senza luce, i nostri sogni.
 
Nascondo un gonfiore
sottopelle. Una pena.
C’era stata la piena
l’ultimo fumo della sigaretta era scivolato nel letto
di una calma, tradotto
nelle tacche dell’idrometro monumentale.
I pesci avevano smesso di fare i pesci,
l’acqua non era amica. Finito tutto in un campo,
anche i mercati, le bambole, gli intonaci.
I palmi delle vecchie ancora oggi vanno
a cercare riparo sull’orlo dei grembiuli, nessuna
donna smette le suppliche e di avere le vertigini.
 
I portici in una sera sono vuoti
per la secca e compare la nebbia,
il saliscendi che zittisce l’imbrunire,
l’ora migliore, in fondo, per andare a bere.
Le moltitudini a spasso, aggrappare alla domenica,
risalgono il corso strette nei corpi
mentre perlustrano le fronti degli altri,
le altezze, il mondo
morto sotto la piena.
Pertinente pena, giusto attesa.
 
Concedimi una preghiera
a bassa voce per non disturbare
l’orizzonte, sfuggitomi di mano.
 
Carne greve,
quasi bene,
terra estrema.
Capace di dare
una fonda visione.
 
Musa lieve,
quasi bene,
posa e netta
lo stupore; torna qui.
 
 
 
 
 
 
Rigagnolo
 
La voce volgeva ai bassi
e la bocca andava ingigantendosi,
un vulcano di lave avvelenate senza
sbocco, senza latte da reclamare.
Ti chiedo dove andare a inginocchiarti
per restare lontano dal corpo.
Non credevo che il male non
facesse dolore sfacciato, fosse
come le tue mani bruciate dai lavori.
Non muovevo lo sguardo, non seguivo
il rigagnolo delle montagne, è vero:
veniamo dal buio o dalla luce
e ce ne andremo nel buio e nella luce
senza poterlo raccontare.
 
 
 
 
 
 
Resistere agli abbracci
 
Capita di resistere agli abbracci
di scendere dal costato
che fa da frangiflutti.
Le ore portano: un otre di briciole e saliva,
la doccia dopo la salita.
Scenderemmo dal mondo stesso
se solo avessimo il balzo del felino
se non fossimo, a tutti i costi, licheni.
 
 
 
 
 
 
Il viaggio si è fatto largo, solo un fremito,
a galla nella testa, nei discorsi mezzo evaporato,
un tappo nello stagno.
Deragliata la voce combatte
coi guasti del generatore a gasolio, annuncia
pesce fritto (quando tornerà l’elettricità:
una cernia d’Oceano o pezzi dal fiume),
per ora si può giacere sullo zenzero, spaziare
avverte, la voce: è troppo lunga la strada,
più lontana
delle vite di tutti, l’una accanto all’altra.
 
 
 
 
 
 
Riempire la clessidra con le domande delle dune,
questa l’eco malmessa del tempo. Anche il tempo
si dissolve sotto uno zenit siderale, possente
di un’unica linea vertebrale.
Riempire i volti di luce, prima dell’ingorgo
del tramonto. Nella notte tornare a far respirare
la salvezza. Per salvarsi, si sa, occorre avere i piedi
e una stella che si metta a funzionare.
 
 
 
 
 
 
Una sposa intanto sussulta, laggiù, a Lampedusa.
Prepara l’altare al centro di identificazione
il sì è già stato pronunciato. Manca ora il bacio della vita.
Radiazioni spalmano le coste, annientano arrivi e approdi.
 
 
 
 
 
 
Sono ore di cuore nel bitume
eppure io scorgo solo il frinire
dei corpi.
Non è di spazio che ho bisogno
a me basta: il tempo.
Il filantropo, si sa, lo fa per tornaconto
sfida il male con la ricompensa
e il male, il male resta
in sella, bene allacciato.
 
 
 
 
 
 
Lo so, non trovo nessuno tanto sincero
da dire: hai torto a stare rintanato,
malpagato, nell’orto fatto di mura, carta
e videoterminale; nella periferia, circondato.
Sul curriculum non l’ho scritto
meglio tacere le inclinazioni
nessuno conosce le virtù del ritiro
i litri di vino stillati nello sfintere
il rodimento vivo e mai palese
il riordino, la ritirata
nessuno conosce più il greco, la lingua, se non i greci
ma quelli hanno il mare e il miele per condire
la malinconia.
 
 
 
 
 
 
Nella fabbrica di pesce (inscatolare le alici)
c’era posto per le formiche: fare camini e scatole,
dotare di camici chi sventra e sala, tirare la cera nelle stanze
guardare il mare dai finestroni rettangolari
poter fumare nelle pause, dimenticare
l’odore di cimice.
 
 
 
 
 
 
L’ascesi non è una sindrome, ma l’ultima
battaglia, lo scatto che meritiamo.
La tundra nei bronchi, lo scarto,
i segni sulla fronte, sulle mani e sul torace
battere per sentire anche solo una volta
il rumore del corpo
ma il rumore finisce per disperdersi
in un otre cavo, frustato, amaro
di crepe, suture e la tosse.
Fragile la gravità e tutte le leggi
che ci hanno dato, che sono state mie
a memoria.
Se questo è il passato, tanto vale
bere la liberazione e fare presto,
via i bendaggi, a petto aperto.
Fino all’assalto ultimo al confine
al limite invalicabile, squarciare
la poltiglia dei talli in superficie
percepire una muta allineata
(realmente sentirne l’odore
cotto di sudore e sottobosco), fremente,
unita nella crescente canizza
dietro la rete, a ridosso della rete, pronta
a sbranare.
 
Scoprire che dall’altra parte
ci sono ancora e sempre: gli umani.
Chi ci racconterà l’usta che abbiamo
lasciato lungo la vita?