Il mestiere invisibile: Roberta Granelli (Bergamo, 1986)

La traduzione non è solo un mestiere, ma un atto di cura e di connessione tra mondi, lingue ed esperienze. Esistono percorsi diversi anche in questo lavoro, che possono intrecciarsi con altre passioni, lotte, forme di impegno e professioni come lo è il caso di Roberta Granelli. Ha tradotto Femminismo bastardo, María Galino (Mimesis, 2024), La guerra contro le donne, Rita Laura Segato (Tamu, 2023), Vivere una vida da femminista, Sara Ahmed (Edizioni ETS, 2022). Non si definisce una traduttrice di professione, eppure il suo approccio alla traduzione è permeato di una dedizione e di una coerenza trascendentale. La sua esperienza di vita tra l’Italia e l’America Latina, il suo attivismo nel campo femminista e transfemminista e il suo impegno nella divulgazione di saperi marginalizzati si riflettono in ogni sua scelta traduttiva. Non si tratta solo di trasporre parole da una lingua all’altra, ma di dare voce a prospettive spesso ignorate, di far circolare idee e sensibilità che altrimenti resterebbero relegate ai margini.

La sua storia dimostra come la traduzione possa essere un legame profondo con un vissuto, un territorio, un sentire e anche un modo di sentire che lei ha fatto proprio. Non a caso, per Roberta, tradurre significa anche preservare e alimentare la connessione con il Messico, con le sue lingue, le sue espressioni, le sue forme di resistenza. In questa intervista, emerge una visione di un mestiere come un atto politico e affettivo. Una conversazione che ci invita a ripensare la traduzione non solo come pratica linguistica, ma come gesto d’amore e di memoria.

 
 

“Il mestiere invisibile: Roberta Granelli (Italia)”

Roberta Granelli ha conseguito un MA in Women’s and Gender Studies nel 2011 con una tesi sulla criminalizzazione dell’aborto in Nicaragua. Dopo aver lavorato in un centro antiviolenza in Italia, si è trasferita in Messico nel 2014, dove ha ottenuto una specializzazione in Educazione Sessuale e ha lavorato nell’educazione giovanile su genere, sessualità e affettività.

Fa parte di diversi collettivi che si occupano di pratiche di autogestione attraverso il posizionamento transfemminista.

Si dedica inoltre alla ricerca e alla traduzione di autrici, autorƏ e pratiche che, a causa del filtro coloniale, faticano a essere conosciute nel contesto italiano. Attraverso il suo lavoro, contribuisce alla circolazione internazionale di saperi critici su corpi, sessualità e identità, ampliando l’accesso a prospettive marginalizzate e favorendo il dialogo interculturale.

 

Quando e come hai scoperto la passione per la traduzione?

Questa domanda mi ha portato a fare un esercizio mentale rispetto a quando io abbia iniziato a tradurre, tradurmi, parlare due lingue che si mischiavano e sono così risalita anche alle mie prime esperienze all’estero, al fascino che mi ha sempre creato mescolarmi, mescolare, adattare l’orecchio agli accenti del posto dal granadino andaluso, al nicaraguense, al chilango. Lo spagnolo (se vogliamo riunire e ridurre tutte queste lingue in una sola) mi ha sempre provocato un brivido che mi permetteva di entrare meglio in contatto con una me che, in italiano, era più censurata. La prima cosa che ho tradotto è stata un film “Fake Orgasm” per poi sottotitolarlo, non ricordo poi i passi successivi se non la costante traduzione di me stessa in vari posti e in molteplici relazioni. Ho riscoperto poi la traduzione mentre vivevo in Messico, ho pensato che tradurre in italiano la ricchezza dei testi e delle opere che avevo conosciuto nel contesto messicano potesse essere un modo per continuare a tenermi legata a quel Paese, a quella lingua, quelle lingue, quelle espressioni. Mi sarebbe piaciuto mantenere un ricordo vivo di come mi ero sentita pensandomi, vivendomi, sognandomi ed esprimendomi in messicano. La traduzione sarebbe stata un pretesto per tenermi legata, per non lasciare andare, per non chiudere definitivamente un legame, e così è stato. Mi emoziona molto, banalmente, la doppia tastiera sul computer, scoprire che scrivo ancora in itañol, mi piace la nostalgia. Tradurre per me è un atto nostalgico.

 

Quali autori o opere hanno influenzato il tuo interesse per la traduzione? 

Sicuramente gli scritti di Gayatri Chakravorty Spivak, già dalla laurea magistrale mi hanno fatta interrogare sul ruolo della traduzione, sul posizionamento del lavoro della traduttrice, sul potere della traduzione come strumento coloniale. Successivamente, avendo già iniziato a tradurre e traducendo solo saggistica femminista, transfemminista e queer, mi sono avvicinata alle opere di Laura Fontanella “Il corpo del testo. Elementi di traduzione transfemminista queer” (2019, asterisco ed.) e “Perdere il filo. Esperienze collettive di traduzione femminista” (2024, Meltemi) e alle pubblicazioni accademiche di Michela Baldo. Strumento fondamentale di confronto costante, meno formale ma spesso più efficace nella sua immediatezza, sono state le riflessioni dellƏ compagnƏ con cui traducevo, così come le riflessioni condivise con amichƏ e compagnƏ che si occupano di traduzione.

 

Quale opera o progetto ti ha messo maggiormente alla prova e perché?

Sicuramente la prima poesia tradotta [Nina Ferrari, Me faltó decirte que], sapendo di non avere esperienze pregresse che mi dessero la sicurezza per sentirmi capace di poterlo fare e sapendo di essere molto emotivamente coinvolta con il testo, più del solito, mi ha fatto dubitare moltissimo delle mie capacità, di non essere all’altezza del compito, di non rendere la poesia nel modo corretto, di sminuirla. Purtroppo non è stata accettata alla prima prova della sua pubblicazione, ne sono rimasta spiazzata e questi dubbi, ovviamente, rimangono.

 

Quali sono gli strumenti e le risorse che utilizzi nel tuo lavoro?

Non essendo una traduttrice di professione, i miei strumenti di lavoro sono molti rudimentali perciò credo non sia necessario nominarli qui. Le risorse che invece mi sono spesso utili, quando esistono, sono le traduzioni in altre lingue della stessa opera, con cui magari provo a confrontarmi o traduzioni dellƏ stessƏ autorƏ in italiano per provare a creare una genealogia di termini e riconoscere il lavoro di chi mi ha preceduta. Un’altra risorsa con cui mi piacerebbe collaborare è la figura del sensitivity reader la quale dovrebbe essere attivata dalla casa editrice per evitare di generare contenuti che ledano le sensibilità o che risultino offensivi. Più che attuare una censura, che credo sia molto problematico, mi piacerebbe collaborare con una figura che corregga i miei errori “di traduzione” che possono provenire magari dal privilegio o dall’ignoranza su una o più tematiche specifiche, una figura che faccia una consulenza culturale alla traduzione, che conosca i molteplici contesti di partenza e i molteplici contesti di arrivo dell’opera, non solamente linguistici. Credo siano figure necessarie, soprattutto nella saggistica, quando riconosciamo che la soggettività di chi traduce è di per sé un filtro nella traduzione e più mani su un’opera possono migliorarne e moltiplicarne il risultato.

 

Ti capita di collaborare con gli autori delle opere che traduci? Se sì, com’è questo rapporto?
Quando posso collaborare con le autrici o autorƏ (non ho mai tradotto maschi cis), mi sento fortunata. Penso che sia un bellissimo rapporto di scambio e di crescita reciproca, penso che chiedere di poter tradurre un’opera sia un gesto di ammirazione e lasciarsi tradurre sia un segno di fiducia e la volontà, almeno credo, di mettersi nuovamente in discussione.

 

Come gestisci il legame emotivo con le opere che traduci?

Lo gestisco molto male; purtroppo impiego davvero poco tempo a disaffezionarmi a un’opera che nel suo processo di traduzione e pubblicazione mi ha segnata in maniera negativa, dove magari la fase di traduzione è stata molto solitaria, dove c’è stato poco confronto con l’autrice o dove il rapporto con la casa editrice è stato difficile. Allo stesso tempo, rimango innamorata di quei testi che hanno ricevuto cura in tutte le fasi del processo di traduzione e pubblicazione, divento gelosa dei testi che provo a tradurre da anni e finalmente vengono pubblicati, ne divento una fan sfegatata, come se finalmente fossero stati riconosciuti per ciò che sono, non solo intravisti tra molti altri.

 

Quali sono le critiche o i malintesi più comuni sul lavoro del traduttore?

La mia esperienza è limitata e credo sia per questo che ho ricevuto poche critiche; sicuramente però la richiesta da parte dellƏ autricƏ che vengono tradottƏ è quella di non essere interpretatƏ. Penso che per molte persone la traduzione sia un mero fatto meccanico di corrispondenza di termini, sappiamo invece che per tradurre un’opera nel migliore dei modi, chi traduce, se può, ha un rapporto costante con chi scrive. Proprio perché il linguaggio è molteplice, complesso e cambia in termini situazionali e contestuali, deve essere quindi adattato nel migliore dei modi alla lingua e ai contesti di arrivo. Una traduzione è molte cose contemporaneamente: è una riscrittura, un’interpretazione, un tradimento e molto altro. La persona che traduce è perfettamente cosciente che non ci sarà una aderenza completa tra il testo di partenza e quello di arrivo ma, almeno per me, non è quello l’obiettivo di una traduzione.

 

Qual è il tuo sogno nel cassetto come traduttrice?
Alcune si stanno già realizzando ma ho una lista infinita di opere da tradurre, moltissime provengono dall’Argentina, per fare alcuni esempi vorrei tradurre le poesie di Susy Shock, i saggi di Leonor Silvestri e quelli di Vir Cano e di val flores, le poesie di Nina Ferrari (tutte).

 

Se potessi scegliere un’opera o un autore da tradurre senza limiti di tempo o budget, chi o cosa sarebbe?

Mi piacerebbe poter costruire una collana di saggi brevi, quasi tascabili, come alcune collane stanno iniziando a pubblicare, non solo per la prosa o per la poesia. Il formato piccolo, secondo me, aiuta nell’approccio alla lettura dei nostri giorni che è spesso distratta, che viene spaventata da grandi libri con moltissime pagine. Mi piacerebbe poter tradurre tutte le importantissime riflessioni e l’elaborazione di pensieri che ho incontrato vivendo in Messico, che abbiano a che fare con la costruzione di un pensiero complesso e molteplice, non riduzionista. Per me anche la saggistica a volte è poetica, quella contemporanea è legittimata a mescolare stili che, nel passato, non venivano considerati legittimi per degli articoli scientifici. Oggi, invece, certi tipi di ricerca legittimano emozioni, affetti, prossimità sensibile e quella che consideriamo teoria arriva ad essere talmente articolata ma allo stesso tempo comprensibile che allevia l’anima, tanto quanto a volte lo fa una poesia.

 

Potresti condividere un passaggio di un’opera (3 poesie, micro-racconto, prosa poetica) che hai tradotto e spiegare perché è importante per te?

Mi piacerebbe condividere una poesia che mi ha cambiato il battito cardiaco quando l’ho letta la prima volta, mi ha tolto il respiro e ogni volta risuccede la stessa cosa. Una poesia che parla di emozioni e amore, di un amore che era a punto di compiersi e invece no. Nina Ferrari legittima attraverso la sua opera una sentimentalità esagerata ma cosciente di sé, citando Mafe Moscoso1, rivendicando emotività periferiche e pericolose che, fuori dal regime amoroso del pensiero cartesiano, non hanno una risoluzione, non si oltrepassano, non si chiudono, non sempre sanano.

 
 
Mi è mancato dirti
 
Che lo sapevo che eri tu,
perché me lo ha detto il mio corpo.
 
Che velocemente abbiamo scoperto
che sono stati i nostri pregressi
che ci avevano scelto.
 
Che normalmente cammino nuda
lungo la via crucis della tua assenza
e mi faccio male sempre
con la corona di spine
delle mie aspettative.
Ma la lascio.
Mi lascio.
Perchè a volte
è necessario
vedere come si arrendono
nella carne
le profezie che si autoadempiono.
 
Che ancora
posso sentire di notte
i brividi del dubbio
del se per caso
avessimo lasciato aperta la porta
del nostro più inconfessabile sottosuolo.
 
Che abbiamo voluto assorbire
dall’amore,
la sostanza
e siamo finiti viziati
dalla sua tossina.
 
Che voglio togliere
 
l’etichetta con il tuo nome
 
ai ricordi
 
perchè ho bisogno
 
che tutte le cose belle
tornino ad essere mie.
 
Che ci siamo lasciati diluire
in tutto ciò che ci siamo detti
per non toccare,
per non rompere,
per non riporre,
per non riparare,
per non dispiacere.
 
Che non siamo mai arrivati a scontrarci,
non siamo arrivati ai plateaux
all’imbottigliamento,
siamo stati solo
il saggio dell’epigrafe di una foto
che non si è mai scattata,
quindi
mi consolo pensando
che questa nostra cosa continua a girare
nelle tubature di ciò che è possibile.
 
Che tutte le notti
mi viene a far visita la domanda
su quali sono le scorciatoie dell’oblio.
 
Che sentire la mancanza é un lusso
che non possono darsi i morti.
 
Che l’ostilità
torna a ricordarmi sempre
che con te
il mondo era un luogo
un po’ più sopportabile.
 
 
 
 
1 Moscoso, Mafe (2022), El despecho latino, la sentimentalidad exagerada, la purpurina. In (h)amor⁷ (p. 7-31), Continta me tienes.