Sente che gli accadrà.
Abbiamo già venduto la cintura dei vivi,
il loro essere una pura cosa visiva.
Che gli dirà? C’è un inizio di sette lingue,
stanze rimaste analfabete, zampe legate
a qualche suono paesaggio
che fa di te, se metti in bocca tutta
l’aria del tempo, il docile contrario della fine:
con il mondo che abbandona sugheri gioie
di nessuna facilità. Prendere come
un bene tutto questo massacro, e respirare.
Se mi avvicino, lei mi prende d’istinto
e mi chiede, tra l’erba, una cosa leggera,
un volto che sa quasi di ordinato:
dove lasciare gli occhi nel segreto di un purissimo
acetone. Siamo amici o esclamativi?
Almeno il sole fa una morte
di intenti, cade e cammina per divenire tutti gli altri;
una tarantola sera che ti chiama, da vicino, fino a corprirlo,
fino a essere te…
Si fa così? Toccare tutto, fino allora a confondere
testa e profumo: ed è un peccato, dico io, come un treno
senza cervello disceso tutto qui, nella sua carne toro;
qui nella gravità: una dolcezza finita
prima di cominciare.
Da “Il mantello di Goya” in Nuovi poeti italiani n.7 (Einaudi, 2024)
Continua la lettura dei testi dei Nuovi poeti italiani n.7 curato da Maurizio Cucchi per Einaudi (2024). Dopo Silvia Caratti (QUI) e Massimo Dagnino (QUI), oggi leggiamo Mario Fresa.
Poesia dal forte connotato narrativo, che altrove nell’opera sfocia in prosa poetica, viene da Maurizio Cucchi circoscritta (o almeno così pare a chi scrive) entro i bordi di tre termini chiave:
- un senso vivo e sottile del paradosso
- quadri vari, magari di amore ed equivoci
- nella consapevolezza di un progressivo sgretolarsi di evidente senso forte del reale
Quello che Cucchi descrive come “limpida fantasia anti retorica” si può anche intendere come una dolcezza che fatica ad emergere, sebbene connaturi indiscutibilmente ogni narrazione. “Prendere come / un bene tutto questo massacro, e respirare”, o ancora “una dolcezza finita / prima di cominciare”.
Fresa, in una narrazione che sovente si conclude e si racchiude in due versi-sentenza, esprime bene quella che è l’esperienza aporetica della vita che viviamo, del “treno / senza cervello disceso tutto qui” che è l’inarrestabilità delle cose che accadono e che è la difformità delle cose che percepiamo, che sentiamo.
“Una tarantola sera che ti chiama, da vicino, fino a corprirlo, / fino a essere te…” quasi un epitaffio in memoria di cose che non sono morte, ma forse nemmeno del tutto vive o che non sanno decidere di sé “il loro essere una pura cosa visiva”.
In questo l’aporeticità succitata, l’ossimoro che pretende “la consapevolezza di un progressivo sgretolarsi di evidente senso forte del reale” e che per definizione non sa risolversi se non in (altrove) “Divorarsi a perfezione, quando sarà possibile”. Seppure raccontato in testi estremamente fluidi e compatti, quasi a loro volta paradossi della narrazione che portano.
Alessandro Canzian