Il divino tatuaggio

Un giorno la madre di Seleuco, compagno della prima ora di Alessandro Magno, poi signore di un immenso territorio che dalla costa orientale del Mediterraneo giungeva sino ai confini dell’India, fece un sogno molto singolare: le sembrò infatti di concepire da Apollo e di ricevere dal dio, come pegno dell’avvenuta unione, un anello che portava incisa a rilievo un’àncora, insieme all’ordine di farne dono al figlio che da quella stessa unione sarebbe nato. Poteva essere un sogno come tanti altri, nato dalle aspirazioni di una madre ambiziosa; invece, al suo risveglio Laodice – questo il nome della donna – trovò fra le lenzuola un anello del tutto identico a quello che aveva visto durante la notte. Quanto a Seleuco, il bambino nacque esattamente nove mesi più tardi con il segno o tatuaggio di un’àncora ben visibile sul femore, come se Apollo avesse inciso sul corpo stesso del neonato la prova inconfutabile della sua paternità divina. Non solo: quel segno si trasmise generazione dopo generazione ai discendenti di Seleuco, se è vero che figli e nipoti del capostipite nacquero tutti con il segno dell’àncora sul femore, quasi come un contrassegno di appartenenza alla stirpe.

Ma Seleuco non era stato affatto il primo a portare sulla pelle un simile segno di appartenenza, perché quel motivo aveva già fatto la sua comparsa nel mito degli Sparti, gli abitanti più antichi di Tebe. Era accaduto dunque che una volta giunto nel luogo in cui sarebbe sorta la città, il fenicio Cadmo, seguendo le istruzioni dell’oracolo, avesse prima ucciso un drago, poi ne avesse piantato i denti nel terreno; dal suolo era emerso allora uno stuolo di guerrieri, gli Sparti appunto, che avevano preso a combattersi tra loro fin quando ne erano rimasti in vita solo cinque, gli stessi dai quali provenivano le famiglie più in vista della Tebe storica. Anche degli Sparti e dei loro discendenti, infatti, si diceva che portassero impresso sulla pelle il disegno di una lancia come distintivo della propria origine guerriera e insieme come testimonianza della propria legittima appartenenza alla stirpe.

A loro volta, gli Sparti non erano i soli personaggi del mito a condividere questa caratteristica, perché qualcosa di molto simile accadeva ai Pelopidi, discendenti dell’eroe Pelope, i quali recavano tutti sulla spalla il profilo bianco brillante di una stella: forse perché si raccontava che lo stesso Pelope fosse stato fatto a pezzi da suo padre Tantalo e da lui servito nel corso di un banchetto come cibo per gli dèi, in una sorta di sfida alla loro onniscienza; in quel frangente la sola Demetra, ignara dell’inganno, ne aveva divorato la spalla, che venne poi sostituita, quando l’eroe fu riportato in vita, da una protesi di avorio.

La storia dell’àncora sognata da Laodice ed ereditata dai discendenti di Seleuco, insomma, aveva i suoi remoti modelli nel mito. Quando però ai primi del II secolo a.C. quella dinastia scomparve per sempre, fagocitata dall’espansione dell’impero romano, anche del segno sulla pelle sembrò perdersi ogni traccia. Ma è poi davvero così? Forse no. I racconti che riempiono l’immaginario delle culture umane sono infatti come fiumi carsici, che possono inabissarsi per lungo tempo ed emergere nuovamente alla luce anche a grande distanza dal punto in cui erano scomparsi e in luogni nei quali difficilmente ci aspetteremmo di ritrovarli.

Accade così che nel libro di viaggi più famoso di tutti i tempi, quel Milione che il suo autore dettò al compagno di cella mentre entrambi erano prigionieri a Genova, Marco Polo riferisca tra l’altro di una storia che gli era capitato di ascoltare quando soggiornava nella regione della Georgia, a quel tempo tributaria dei Tartari: dai suoi informatori locali, dunque, Marco era venuto a sapere che tutti i re di quella terra nascevano un tempo con il marchio di un’aquila impresso sulla spalla destra. È possibile, come ipotizza una parte degli studiosi, che quel marchio ricordasse l’antica sottomissione dei Georgiani all’imperatore bizantino, del quale il grande rapace era uno dei simboli. A noi, invece, piace pensare che quella annotata da Marco Polo sia solo l’ultima manifestazione in ordine di tempo della leggenda nata un millennio e mezzo prima alla corte di Seleuco: in fondo, l’antico sovrano macedone aveva regnato su quelle stesse terre, anche se difficilmente avrebbe immaginato che il sogno di sua madre sarebbe arrivato un giorno alle orecchie di un uomo giunto sin lì dalle torri scintillanti di Venezia.