Il dio della solitudine – Philip Schultz



Il dio della solitudine, Philip Schultz (Donzelli 2018).

C’è poco da obiettare a proposito della cruda delicatezza della quale sono guantate le mani, gli occhi e le parole di una voce come quella che risponde al nome di Philip Schultz; un poeta che ha sconfitto la dislessia attraverso quella che credo essere la forza della poesia. La storia di Philip Schultz è un affascinante lieto fine e un appagamento della determinazione, sembra quasi appartenere ad una favola. Ed è terribile, perché è la dimostrazione di quanto il giudizio e il dubbio umani siano fallaci: può un ragazzo che non sa né leggere né scrivere (perché incapace e non perché svogliato), e che sembra scollegato dal mondo e dal linguaggio, diventare uno scrittore e vincere il Pulitzer?

L’ultimo libro di Philip Schultz, pubblicato da Donzelli, Il dio della solitudine (2018), è un’affermativa e spiazzante risposta a tale quesito. Ci sono voluti otto anni per decretare una traduzione, con relativa pubblicazione di The God of Loneliness, Selected and New Poems (Houghton Miffin Hartcourt, 2010), in Italia, a cura di Paola Splendore. La raccolta è “scolpita” in forma antologica e vi affluiscono alcuni testi (tratti da diverse raccolte pubblicate negli USA), scritti in un decorso temporale che vede la luce nel 1978 e sfuma nel 2018. Sono quarant’anni di vita e riflessione, ancor prima che quarant’anni di poesia o successo. Si tratta altresì di anni vissuti sopportando un giogo, quello dell’etichetta “stupido”, ignorando quel peso che poi verrà identificato come Disturbo specifico dell’apprendimento (DSA). Il successo di Schultz coincide con il suo stare nel mondo, con l’ambire a realizzare un sogno nonostante sia impossibile coronarlo. È stata una lotta contro sé stesso, prima che contro tutti coloro che lo ridicolizzavano. Una guerra ha bisogno di armi – seppur metaforiche, certo – per essere intrapresa. Ed è così che Schultz impugna la poesia. Una poesia che tenta di essere onnicomprensiva percorrendo parallelamente due strade, quella storica e quella della consanguineità. Il tempo è una matrioska il cui comportamento può però coincidere con un andamento simile a quello di cui godono le spirali. Nell’intreccio poetico di sangue e tradizione, Schultz scrive testi come Pumpernickel e Per mia madre. Il primo di questi testi deve il suo titolo al tipico pane tedesco in segale, che la nonna del poeta era solita preparare con un’ossessiva dedizione e che lievita sapientemente fin nella tenera e gravosa chiusa “& chi riesce a non stupirsi del mistero del cuore umano quando/ sollevi una fetta controluce in tutto il suo assurdo splendore & credimi/ bisogna rischiare tutto per la cruda ricetta della nostra passione”. Per una cosa così semplice, come può esserlo un desiderio oppure il gesto in cui ristagna il simbolo di tutta una tradizione, dice il poeta, vale sì la pena di “affliggersi tutto il giorno & poi sentirsi/ morire se non cresce”, perché la passione è questo ed è destinata a non avere fine, come il tempo. E come il tempo decantato da Schultz cerca di farsi il portavoce della memoria, così si fa contenitore non solo di eventi, ma di sangue e amore, visto che anche se non si conosce il modo per liberarsene, “il dolore finisce” in una “cicatrice”, la stessa che viene raccontata in testi densi come L’artista & sua madre: su Arshile Gorky, Per mio padre. La figura paterna è incapace di evitare una sosta in più componimenti e, in qualità di “fallito”, si propone come sintesi di un allegorico e fantasmagorico complesso da sogno americano.

Nella poesia Il Quattro luglio, come suggerisce il titolo, si parla di un giorno di festa nazionale, commemorativo dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Ed è interessante evidenziarne almeno una parte: “Seduti sulla sabbia, fingevamo che fosse giusto/ sperperare il futuro, la felicità non ci avrebbe perso di vista./ A quel tempo, tutti si arrabbiavano se dicevi qualcosa sull’America,/ nessuno pensava che quanto aveva non fosse abbastanza. Forse è per questo/ che ci piacevano i fuochi, perché sapevamo che la guerra non era/ veramente finita, stava solo facendo una pausa, e i nostri giuramenti erano già/ quasi tutti infranti”. In altri testi gioca un ruolo fondamentale l’anatomia del disagio sociale scaturito dal confronto interrazziale svolto su un terreno cosmopolita; tra questi un testo di spicco è Avidità.

Nelle poesie di Schultz un filo rosso esiste nel rapporto che intercorre tra la genitorialità e l’eredità che essa comporta nel tempo. Il dono della vita è per un figlio impossibile da ricambiare, impossibile altresì da gestire. Non vi è pace, solo ironia nell’ostentarne il simbolo. Il dono è facilmente traducibile in peso, nella lingua dei figli. Il peso della memoria coincide con “la stretta della consanguineità” che “non è altro/ che un abbraccio con il tempo”. Se c’è un modo in cui il poeta può provare a ricambiare l’amore e il dono materni, il peso che incarna come figlio, è quello di portare una “ferita sempre aperta”, per cui viene “benedetta la lotta solitaria dell’immaginazione col tempo”.

Pascal diceva che “L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e tuttavia questa è la più grande delle nostre miserie”: ecco svelate – attraverso questa frase ripresa dal poeta – quelle che sono le ragioni celate dal tenero gioco condotto da Schultz, con l’aiuto di un delizioso humor, nei suoi versi: esorcizzare i demoni che infestano e tormentano la memoria di un passato gravoso. Per gli ebrei, condizionati dal loro passato, dalla loro storia personale e dalla diaspora, cui “le stelle appaiono solo di notte/ la vita è una commedia condita di disperazione”. Una vita abitata in bilico, tra “il fascino/ del futuro o la tolleranza del passato”. Una vita da nomadi, verso cui si direziona la voce di Philip Schultz, per incanalare un’evocazione e, per meglio dire, una rievocazione, percorribile senza auspicabili proposte di redenzione, poiché nulla può prestarsi come contributo adiuvante; nulla, nemmeno Dante, tanto meno la filosofia o la memoria stessa possono rimediare.

Inoltre, c’è un verso che stimola sensazioni gotiche, nella poesia che Schultz dedica a sua moglie e che recita, con fare didascalico e tagliente, un dato che appare imprescindibile: “nessuno si salva da solo”. Infatti, da solo non si è salvato nemmeno il saggio Mr. Schwartzman. Anzi, è egli stesso che si dona la fine, impiccandosi; sarà il poeta, ancora dodicenne, preoccupato per la sua ascesa al bar mitzvah (cioè all’età adulta), a rinvenirne il cadavere: “Mr. Schwartzman non odiava se stesso, era/ solo stanco, diceva, delle discussioni nella sua testa”, “citava Buber, secondo cui il mondo si lascia sperimentare, / ma non ha interesse nella faccenda. Sono alto quanto lui, anche se/ i suoi piedi non toccano terra. Ancora non capisco perché/ si era messo giacca e cravatta ma non scarpe o calzini”. Il poeta ricorda il modo in cui sua nonna si disperava alla morte del marito, arrivata ad incolpare Dio, credendo che tutti gli ebrei, come loro, son stati eletti solo “per essere umiliati e confusi”. Mr. Schwartzman, a tal proposito, prima di privarsi della vita, non era d’accordo perché “non è un vanto, ma un dovere/ […] siamo eletti per santificare il nome di Dio. / […] Siamo un popolo che sceglie, l’alba e il crepuscolo,/ la sfida e la prova”.

Non è riuscito a salvarsi nemmeno il fratello della moglie di Schultz, così come il nonno di quest’ultimo è stato messo da Dio nel “posto sbagliato”, almeno secondo il parere della nonna, che teme sia troppo tardi per ogni cosa.

Qualunque sia la colpa di un uomo, non è il nomadismo la condanna che gli spetta, bensì il comune destino di ogni essere vivente: semplicemente “una fine che coglie sempre di sorpresa, anche/ quando te l’aspetti”. Schulz non fa altro che esporre quanto sia fondamentale ricordare che ogni uomo, prima del suo credo, è soggetto ad una legge che è banalmente universale, totalmente comune: l’essere vivente è nomade non solo nel mondo, ma nella vita, e un ebreo lo è anche durante “la tristezza dell’esilio, / e il coraggio della primavera”. Dal medesimo contesto, in una delle più recenti poesie dell’autore, derivano le parole che prestano il titolo alla raccolta italiana, Il dio della solitudine: “Virgilio capiva che/ la morte comincia e non ha mai fine; che è il dio della solitudine”.

Ribadisco, infine, quel che ha già scritto Paola Splendore, l’ottima curatrice della raccolta, in calce al libro: “Se le raccolte più mature, da Failure a Luxury (2018), ruotano ancora intorno a un nucleo di solitudine e disperazione, il tono malinconico e meditativo convive però con la gratitudine per moglie e figli, per il successo insperato, e per la casa sull’oceano. Una casa umanizzata, correlativo oggettivo delle sue emozioni più profonde e nei cui confronti il poeta si sente debitore, per la <<pazienza e lealtà>> delle sue pareti e perché i pavimenti <<sostengono il peso della nostra indifferenza>>. Così Schultz stempera il disagio di stare al mondo accettando la sua poesia come la compagnia di strada di sempre, con un’indulgenza che alla fine si riflette sulla sua stessa sorte: <<Le mie poesie/ saccheggiano quasi tutto, timori, progetti,/ congetture e stupori, cercano prove/ di infedeltà, frammenti di ispirazione>>”.

Vernalda Di Tanna

 
 
 
 
Come sono diventato insegnante
 
Lei sedeva in silenzio,
dall’altro lato del tavolo di cucina,
faceva un solitario, a ogni
suo profondo sospiro, su e giù,
la luce verde dei suoi occhi
diventava opaca, ogni discesa
delle spalle mi buttava giù,
la sua scarpa sinistra ritmava un motivo
che non riconoscevo mai. Neppure una volta
l’ho interrotta, per chiederle qualcosa
come faceva sempre mio padre.
Sedevo all’altro lato del mondo innevato,
e lentamente imparavo l’arte di
scomparire in qualcun altro.
 
 
 
 
 
 
Sacrificio
 
Un giubbotto pensato per esplodere.
Una discussione che riguarda Dio
e il nulla e la vergogna.
Un’idea intrisa di fame,
di odio sparso sul marciapiede,
spalmato sul muro, che confonde
ogni opinione e riflessione. Una teoria
sulla liberazione di sé;
sulla rassegnazione e l’adempimento,
la resa e la gloria. La foto
di una donna che sorride agli uomini
che sta per annientare; di un ragazzo
che si avvia deciso verso il proprio destino,
già eclissato dal tempo. Una logica
forzata, colpita e accarezzata
dalla morte. Un appello a Dio come santuario,
testimonianza e ricompensa; per restare
normali e vivi e non dilaniati.
Una discussione infine tra le anime
e i loro corpi se siano
o non siano doni di Dio.
 
 
 
 
 
 
Fallimento
 
Per pagare il funerale di mio padre
mi feci prestare soldi da persone
cui lui già doveva soldi.
Uno lo definì una nullità.
No, dissi io, lui era un fallito.
Nessuno ricorda
il nome di una nullità, perciò
sono chiamati nullità.
I falliti non li dimentichi.
Il rabbino che lesse l’elogio di rito
di un uomo che non apparteneva
e non credeva a niente
era lui un fallito e una nullità.
Non riuscì a capire che ogni
sua parola umiliava il figlio
e la moglie del morto.
A capire che non
credere e non appartenere a
niente richiedeva una sorta
di fede e di spavalderia.
Uno zio, che contava sulle dita
gli affari falliti di mio padre –
un parcheggio dove allevava oche,
un motel con lune di miele in palio,
un bowling con mariachi itineranti –
non riuscì ad amare e rispettare suo fratello,
che gli aveva insegnato a fischiare
di nascosto, a rubare mele
con la destra e la sinistra. In realtà,
mio padre era un tipo buffo.
L’orologio gli pizzicava il polso, inciampava
nel risvolto dei calzoni e russava
forte al cinema, dove
la stanchezza alla fine
lo vinceva. Non credeva a:
risparmi assicurazioni giornali
verdure bene e male fragilità
umana storia né Dio.
I parenti ci evitavano
come la peste. Lasciai la città
ma non riuscii a scappare.