Il brutto anatroccolo era un’aquila marina

Finalmente anche il grande uovo si era schiuso, dopo che tutti gli altri avevano ormai da tempo completato la cova, e un pulcino grigio e piuttosto sgraziato ne era venuto fuori ruzzolando sull’erba. Mamma anatra lo aveva guardato perplessa e con un certo sospetto: «È grosso in un modo spaventoso questo anatroccolo!», aveva detto, e «non somiglia a nessuno degli altri! Che non sia davvero un pulcino di tacchina! Uhm! Lo sapremo subito! In acqua lo voglio vedere, dovessi buttarcelo dentro a calci!». Detto fatto, il giorno dopo, approfittando di una bella mattina di sole e seguita dalla lunga fila dei suoi anatroccoli, si era diretta verso il canale e c’era saltata dentro, invitando tutti i pulcini a fare lo stesso: uno dopo l’altro gli anatroccoli si erano tuffati, compreso il piccolo brutto e grigio, scomparendo per un attimo sotto la superficie dell’acqua e poi tornando subito a galla per lasciarsi trasportare dal filo della corrente. Mamma anatra aveva tirato un sospiro di sollievo: nonostante fosse così diverso dai suoi fratelli, i più begli anatroccoli che lei avesse mai visto, anche l’ultimo nato si teneva dritto sull’acqua, muovendo agilmente i piedi e dimostrando oltre ogni ragionevole dubbio di non essere un tacchino. «È mio, decisamente!», era stata la gongolante conclusione dell’anatra.

Quello che il personaggio della celebre fiaba di Hans Christian Andersen non poteva sapere è che la prova cui aveva sottoposto il suo pulcino era solo l’ultima erede di una consuetudine remota, che affondava le sue radici in un passato lontanissimo e riguardava specie assai meno rassicuranti dei paffuti anatroccoli. Secondo gli zoologi antichi, ad esempio, il coccodrillo ricorreva a un espediente analogo per distinguere i figli genuini da quelli illegittimi: se il nuovo nato, appena venuto al mondo, catturava subito qualche preda, dimostrando così di possedere l’istinto aggressivo tipico della sua specie, veniva ammesso nel nucleo familiare e amato dai genitori, mentre se non era neppure capace di afferrare una mosca, un lombrico o una cavalletta il padre lo faceva a pezzi, considerandolo indegno di essere annoverato fra i coccodrilli.

Una storia simile si raccontava in Grecia e a Roma anche a proposito dell’aquila marina, un uccello dotato di una straordinaria acutezza visiva che lo metteva in grado di fissare senza danni la luce solare. Quando dunque un piccolo aquilotto spuntava dall’uovo, subito l’aquila madre lo costringeva a voltare la testolina in direzione del sole; se però il piccolo distoglieva lo sguardo, o semplicemente sbatteva le palpebre, allora era cacciato dal nido in quanto «figlio di un adulterio e indegno della stirpe», mentre venivano allevati quelli la cui vista era rimasta indenne.

Nell’immaginario degli antichi, peraltro, racconti come questi riguardavano non solo il mondo animale, ma anche quello umano: è il caso di una popolazione stanziata nell’entroterra dell’attuale Libia, gli Psilli, dei quali si diceva che fossero immuni dal veleno dei serpenti e che riuscissero persino a metterli in fuga grazie al particolare odore emanato dalla loro pelle. Per accertarsi che un bambino non fosse nato da un adulterio della madre, gli Psilli lo calavano dunque in una cesta riempita in precedenza con i micidiali rettili, che avrebbero aggredito chi non era un autentico membro della tribù.

Di fronte a questi racconti sarebbe facile scuotere la testa e sorridere dell’ingenuità delle culture che li avevano elaborati, specie se poi simili storie fanno la loro comparsa non in un libro di fiabe, ma in enciclopedie e manuali scientifici, come avviene per tutte le notizie che abbiamo riferito. In realtà, essi ruotano intorno a una questione che per quelle culture era di estrema importanza: come smascherare la più grave e insieme la più sfuggente tra le colpe femminili e come verificare, al tempo stesso, la legittimità del nuovo nato, escludendo che si trattasse di un figlio penetrato abusivamente in una famiglia che non gli apparteneva in seguito a un adulterio della madre. In un mondo che non conosce il test del DNA, quella verifica non può che fondarsi su indizi e prove indirette, tesi ad accertare che il piccolo condivida le caratteristiche della sua specie, individuate a seconda dei casi nell’aggressività, nella capacità di fissare impunemente la luce solare o nell’immunità al veleno dei serpenti. Oppure nella confidenza con l’acqua propria degli anatroccoli.