I Piombi

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In un periodo di accesissimo dibattito sulla vita o la morte della poesia, col nemmeno tanto celato dubbio che la domanda sottesa sia se sono vivi o morti i poeti, tra citazioni e omissioni (e articoli che a loro volta scivolano sull’onda dei dibattiti a firma di questo o di quello), mi piace ricordare un libro di poesia che non ha autore. Non una finzione o una provocazione o un antico manoscritto di cui si sono persi i natali, ma un vero e proprio libro novecentesco di poesia di cui si ignora la paternità. E nonostante questo il libro è divenuto patrimonio di una città (Udine) tanto da essere ristampato anche in tempi relativamente recenti (l’edizione da cui attingo è quella di LaNuovaBaseEditrice del 1987).

La prefazione del volume, a cura di Isi Benini, riporta testualmente: Il mio primissimo impatto con I Piombi risale alla primavera del 1935. Più di mezzo secolo fa. Ne fu “Santolo” Chino Ermacora, cantore di friulanità e mio maestro, allora, di quinta elementare alle ormai leggendarie scuole Alighieri di Via Dante, qui a Udine. […] Fu così che un giorno Chino mi prese per mano e mi disse: “Se proprio vorrai conoscere meglio questo nostro Friuli, il suo carattere e alcune fra le sue più popolaresche connotazioni, il suo costume (anche se il meno nobile), le “macchiette” della vecchia Udine, le sue abitudini, qualche brandello della sua storia minore, il suo humor, ebbene, leggiti I Piombi. […] Ma da quale penna e da quale felice intuizione sono mai usciti questi Piombi che, nella loro ruvidità e nella popolaresca schiettezza del loro linguaggio, sottolineano con tanta efficacia e con tanta puntualità il gusto tipicamente scozzese del paradosso che è così radicato nel carattere celtico-friulano? L’interrogativo, anche se la ricerca è stata per anni accanita, pare destinata a restare ormai senza risposta. Forse li scrisse lo storico Romeo Battistig, il patriota ucciso sul ponte di Sagrado durante la prima grande guerra. O fors’anche il poeta dialettale Emilio Nardini, avvocato e amico di Giuseppe Girardini.

Un mistero, quello della paternità de I Piombi, che è bello resti tale in quanto dimostra la capacità della Poesia di dire una cultura, le sue pieghe, le sue verità. Qui ne riporto solo qualcuna e solo nel dialetto originario (senza traduzione) in quanto è un progetto che ho in lavorazione e non voglio svelare troppo. Se non concludere con le ultime parole della prefazione di cui sopra che ribadiscono i segreto e il suo calore, tutto sommato, che è il calore della poesia quando diventa patrimonio storico di una popolazione: Ma è bene che il mistero resti tale. Proprio perchè I Piombi sono l’espressione fra le più genuine di Udine e di tutto il Friuli nell’amore che portano, da sempre, ai tepori confidenziali delle loro osterie sopravvissute all’arroganza delle stupidizzanti pizzerie e nelle quali, a volte e ahimé sempre meno spesso, l’atmosfera de I Piombi riscalda tuttora cuori, sentimenti e il grande orgoglio di essere friulani.

 
 
 
 

Ai Piombi, confradis,
la Patrie nus clame!
Sfidìn cu li bàlis
de puglie la flame.

Lu dîs Garibaldi,
lu dîs Tite Slace:
cul alcool dai litros
si côpi la sflace!

La trèmule note
di Toni Pacàss
sei squillo di uere.
‘Nuss clàmin da bass.

 
 
 
 
 
 

Si scopron le tombe
si levano i morti.
I màrtars de puglie
son tutti risorti.

Lis ombris di Massimo,
di Schultz, di Cincot,
ritornano ai Piombi:
no vuelin stâ sto!

Scendete o mortali,
vignît jù ‘ne scjale,
cjalait, rimiraile,
che splendide sale.

 
 
 
 
 
 

Si urte la femine,
la Secli ‘e perore.
Si sint: “Bruta vaca!”.
“Ruffian!”. “Va ti sbore”.

Lis ostis di Guagnolo
e i ùrlos di Scàin
complètin la musiche
de scrovis che vàin.

A rompi la dispute
‘ven jù Marcelìn:
“Son qua de passaggio…
Ragazzi un quintìn!”.

 
 
 
 
 
 

La gjambe dal côgo
che uiche al fornel,
j à dât jù pal flàut
l’accento plui biel.

El vuarp da l’armonighe
si tache sunâ;
al palpe pes tàulis:
“Signori son qua!”.

L’ambient impussìbil,
la spusse, il calôr
ti siare la gole,
il cjâf ti va atôr.

 
 
 
 
 
 

“Me credi lustrissimo
signor Maresciallo:
nun erano fradici,
fu causa del ballo…”.

“Neh! Jamme, don Cosimo,
nun fate lo gnorri;
sun vecchio, sun pratico:
me chiamo Bacchiorri.

Un occhio vo’ chiudere,
nun fare del male;
portate, sbrigatevi,
portate un boccale.

 
 
 
 
 
 

Corìn là di Pécil
sul puint dai sospîrs,
la sgnape, la puglie
nus gjave i pinsîrs.

E quant che la puglie
‘nus mène a San Vît,
la crôs no covènte:
si planti une vit!