L’immaginazione, il fremito, il desiderio ma anche l’ansia, la tristezza e la malinconia. Charles Baudelaire, il visitato dal soffio dell’ispirazione, si aggirava in una Parigi di metà Ottocento a caccia di figure che potessero offrirgli la metafora perfetta per esprimere le sue affezioni, il suo rapporto col mondo, perturbante, a tratti idillico o colmo di vigore spirituale. Chiome di donna, seni nudi, profumo di corpi ma anche carcasse di animali, l’alba, il mare o una carovana di zingari in viaggio e ancora la sera, la declinante, la sfiorente, la cullante, l’anestetico che sapeva placare la sua angoscia con l’affievolirsi del rumore e lo sbiadirsi dei colori della città. È questa capiente mareggiata che da quasi due secoli rende magnetici per il lettore i versi di Baudelaire, i suoi Fleurs du Mal da due secoli tradotti variamente in Italia e da aprile scorso, all’interno della collana «Lo Specchio» di Mondadori, tradotti dalla penna di Milo De Angelis.
La traduzione
In casa Mondadori Milo De Angelis non è però l’unico che ha saputo rendere la vitalità dei versi di Charles. Qualche esempio di comparazione, a breve, potrà rendere l’idea di quanto il respiro di ogni traduttore, la sua percezione estetica unita al personale vocabolario e ritmo linguistico, sia capace di restituire impressioni eterogenee pur lavorando su sinonimie verbali. Chi conosce e legge lo scrittore milanese ha ben presente quel suo understatement, ovvero il piglio poco lirico e retorico, piano e oscuro che ne caratterizza la voce poetica e, in modo simile sull’andamento del verso, anche le sue traduzioni — si pensi al recente De rerum natura (2022) tradotto da Lucrezio.
Si entri adesso nel vivo della materia poetica comparando le traduzioni storiche di Gesualdo Bufalino e Giovanni Raboni all’attuale di De Angelis, prendendo il testo Correspondances come esempio:
È la Natura un tempio dove a volte viventi
colonne oscuri murmuri si lasciano sfuggire:
tu, smarrito entro selve di simboli, seguire
da mille familiari segreti occhi ti senti.
Come echi lontani e lunghi, che un profondo
e misterioso accordo all’unisono induce,
coro grandioso come la tenebra e la luce,
suoni, colori e odori l’un l’altro si rispondono.
Conosco odori freschi come parvole gote,
teneri come òboi, verdi come giardini;
altri, corrotti e ricchi, attingono remote
espansioni, al di là degli umani confini…
E sono il belzoino, l’ambra, il muschio, l’incenso,
che cantano le estasi dell’anima e del senso.
(Gesualdo Bufalino, 1983)
È un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri;
e l’uomo l’attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari.
Come echi che a lungo e da lontano
tendono a un’unità profonda e oscura,
vasta come le tenebre o la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.
Profumi freschi come la carne d’un bambino,
dolci come l’oboe, verdi come i prati,
- e altri d’una corrotta, trionfante ricchezza,
con tutta l’espansione delle cose infinite:
l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino,00
che cantano i trasporti della mente e dei sensi.
(Giovanni Raboni, 1996)
I versi tradotti da Bufalino hanno una resa fortemente musicale, vicina all’originale di Baudelaire — si potrebbe quasi pensare di stare leggendo il poeta francese che scrive in italiano. Le rime combaciano perfettamente con il testo in francese, la lunghezza del verso si aggira tra l’endecasillabo e il doppio settenario non volgendo oltre le quindici sillabe. Anche per Raboni la lunghezza del verso è questa ma la musicalità è quasi assente, e invece d’essere cercata a fine verso la consonanza si annida quasi nel corpo interno del testo stesso. In entrambi le pause, la punteggiatura e dunque il ritmo rispondono quasi ugualmente al testo originale. In Bufalino, a differenza di Raboni, è maggiormente presente l’anastrofe e l’iperbato — in entrambi però il senso e lo slancio immaginativo riescono a conquistare la mente del lettore. Si veda ora quanto ‘trans-portato’ da De Angelis nella ‘sua’ lingua:
La natura è un tempio dove colonne viventi
fanno uscire talvolta confuse parole;
l’uomo la percorre tra foreste di simboli
che l’osservano con sguardi familiari.
Come lunghi echi che da lontano si confondono
in una tenebrosa e profonda unità
vasta come la notte e come la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.
Ci sono profumi freschi come la carne di un bambino,
dolci come l’oboe, verdi come le praterie,
e altri corrotti, ricchi e trionfanti
che hanno l’espansione delle cose infinite,
come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso
che cantano gli slanci dello spirito e dei sensi.1
In questo singolare caso la musicalità è accentuata per quanto la resa sonora sia differente dalla traduzione di Bufalino e più vicina a quella di Raboni. La vis verbale rimane intatta e si può affermare con certezza, prendendo a riferimento questo solo testo cardine dei Fleurs, che il passaggio da una lingua all’altra ha ‘funzionato’, ovvero che il meccanismo di trasposizione linguistica ha mantenuto viva la sua forza ideale, il nucleo della sua spinta ctonia, donando così al lettore italiano un Baudelaire affatto sbiadito.
Questo accenno alla traduzione valga come esempio paradigmatico dell’andamento totale dei Fleurs di De Angelis, senza dilungarsi troppo su di essa per lasciare al lettore la libertà di decidere quale traduzione si confaccia maggiormente alla propria sensibilità. Un breve passaggio sul topos della città potrà aiutare a comprendere l’affinità elettiva che lega l’autore milanese al poeta parigino.
La città
L’urbanizzazione dei luoghi e lo spostamento delle masse dalle campagne alla città, come ci ricorda la storia, è un momento di transizione epocale. Mutano le abitudini di vita, i ritmi, gli stimoli sensoriali e visivi (l’orizzonte ‘chiuso’ della città contro quello ‘aperto’ delle zone di campagna e collinari, o montane), le aspettative della politica su ogni individuo, il costume, il rapporto con il tempo e l’affaccendarsi quotidiano. Muta, dunque, anche il rapporto con l’infinito e i suoi segni che Charles cerca nelle armonie della sera, in un’alba parigina, negli occhi di un cieco, all’interno del rapporto dolce e conflittuale con le donne che frequenta, in una passante, nelle figure di vecchi o nell’‘anima del vino’. Quel ‘maledettismo’ di cui il poeta è stato tacciato, e che viene un po’ tramandato come luogo comune per de-finire la sua persona e la sua poesia, non è altro che un profondo bisogno di contatto con l’infinito cercato nei suoi segni, inseguito in modo forsennato e famelico da un’anima assetata di istanti di pura grazia. Ma Charles visse in un momento storico dove, al contrario di lui, pochi altri inseguivano quei segni perché maggiormente affaccendati ad adattarsi a un altro stile di vita, a scoprire altri valori, altri desideri. Da qui, forse, il suo sbigottimento, la sua malinconia, la tristezza grande, il rapporto tormentato con il Tempo, l’insopportabile idea della morte. Mancava un legame profondo — un pensiero religioso — con la dimensione cittadina che non comprendeva affatto dove volgesse il suo sguardo, dove la sua anima cercasse riparo e casa.
Si può dire che Milo De Angelis viva, e abbia vissuto, in modo simile la dimensione cittadina dov’è cresciuto: l’instancabile Milano. Certo, tra i due esistono profonde differenze di stile e di ricerca che non si approfondiranno qui, ma la città rimane la madre di entrambi, la partoriente entità che le due personalità hanno guardato e attraversato, e che ha dato forma alla loro storia letteraria.
Fabio Barone
XXII. Profumo esotico2
Quando, a occhi chiusi, in una calda sera d’autunno
respiro l’odore del tuo seno ardente,
io vedo scorrere spiagge felici
abbagliate dai fuochi di un sole insistente;
un’isola pigra a cui la natura regala
alberi singolari e frutti saporiti;
uomini dal corpo snello e vigoroso
e donne dallo sguardo di sorprendente franchezza.
Il tuo odore mi guida verso climi incantanti
e vedo un porto pieno di vele e di alberi
ancora affaticati dalle onde del mare,
mentre il profumo dei verdi tamarindi
che si effonde nell’aria e mi dilata le narici
si mescola nell’anima al canto dei marinai.
XLVI. L'alba spirituale3
Quando nei dissoluti l’alba bianca e vermiglia
si allea con il tarlo dell’Ideale,
per opera di un mistero vendicatore
nel bruto assopito si risveglia un angelo.
L’azzurro inaccessibile nei Cieli Spirituali,
per l’uomo abbattuto che sogna ancora e soffre,
si apre e sprofonda attirato dall’abisso.
Così, cara Dea, Essere puro e luminoso,
sui resti fumanti delle stupide orge
più chiaro, più roseo e affascinante il ricordo di te
volteggia senza posa davanti ai miei occhi spalancati.
Il sole ha oscurato la fiamma delle candele
e al sole immortale, anima splendente,
assomiglia il tuo fantasma sempre vittorioso!
XCII. I ciechi4
Contemplali, anima mia: sono proprio spaventosi!
Sembrano manichini; vagamente ridicoli;
terribili, strani come sonnambuli;
dardeggiano non si sa dove i globi tenebrosi.
I loro occhi, dai quali è sfuggita la scintilla divina,
come se guardassero lontano, restano alzati
al cielo; non li vediamo mai curvare verso il selciato
con aria sognante la testa appesantita.
Attraversano così il nero sconfinato,
questo fratello del silenzio eterno. Oh, città!
Mentre intorno a noi tu canti, ridi e muggisci,
invaghita del piacere fino alla ferocia,
vedi, mi trascino anch’io! Ma, più ebete di loro,
dico: «Cosa cercano nel Cielo, tutti questi occhi?».
1 “IV. Corrispondenze” in Milo De Angelis, I fiori del male di Baudelaire, Milano, Mondadori 2024, pag. 27.
2 Milo De Angelis, I fiori del male di Baudelaire, Milano, Mondadori 2024, pag. 59.
3 Milo De Angelis, I fiori del male di Baudelaire, Milano, Mondadori 2024, pag. 109.
4 Milo De Angelis, I fiori del male di Baudelaire, Milano, Mondadori 2024, pag. 215.