I figli promessi – Daìta Martinez

I figli promessi – Daìta Martinez

© Fotografia di Francesco Francaviglia

 
 
 
 
al momento la sua sedia dimentica la
novena del luogo imperfetto tra sassi
ridono il nudo abbraccio del tramonto
 
 
 
 
 
 
i figli promessi barano a tressette il nome
che non possono indossare           preferiscono
le nuvole da cambiare come un pancottto
da mangiare nei campi d’inverno quando
sfarina una lacrima dalla gommapiuma il
ricordo indefesso l’invasione invasiva del
cerchio noematico a visiva infusione svia
 
la liturgia dell’acqua
pianissimo la bocca
quasi un senso nudo
 
 
 
 
 
 
                                                                    tu
                                                                    di tu
nuvola capovolta tra la guancia
sorpresa a molla d’un posanome
senza audio in più angoli di film
per nulla in bianco e nero            lenta
tenerezza tenta            attenta l’infinito
sono quel niente di riso                     sul viso
alla tua bocca se scotta l’attiguo
la grandinata           riservatissima nel
fondo blu naïf del leggero baule
che ci spoglia d’odore e        l’odore
delle trombe degli angeli         tutt’un
fiato                 alla ritornata trasparenza
l’insolito piano del nostro castigo
 
e           spaurite sono parole
le une                     tutte dietro casa
gardenia il tremito così
l’esule ruscello d’uomo
sull’inguine schiuma la
 
finestra rossa e                       alcuno
è rumore è solo           candore
al calare del sole sotto
una lacrima rammenda
dalle ciglia i tetti stretti
 
del castano stanco dopo
ca prija li sô santi s’orla
sul nido della stanza del
senno MadreMaria ode
il merlo vicino stormire
 
 
 
 
 
 
d’aurora un oltraggio è il bucaneve
immacolato              il bianchissimo seno
 
 
(Daìta Martinez, Liturgia dell’acqua, Anterem Edizioni, 2021)
 
 
 
 

La complessità di quest’opera, già di primo acchito, potrebbe porre il lettore innanzi ad un presagio di eccentricità della poesia; ma, presa confidenza con la natura fisica – se non anzi fisiologica – della poetica di Martinez, il dettato non può che far subentrare nella fucina mistica del canto il lettore, e nel senso liquido che tutta l’esistenza pervade ed incarna.

Per questo (venendo alla lettera) se la liturgia è l’elemento minimo della sacralità, e l’acqua è lo stesso per l’esistenza, il sillogismo sotteso al titolo del libro istruisce attorno al principio per cui il parossismo dei due concetti posti in dialogo districhi l’equazione in cui vita e sacralità siano congruenti e sovrapponibili, quando avvicinati nella loro sostanza infinitesimale.

Il che, spostandosi all’altezza zenitale della lettura, più appare nel momento in cui queste due realtà si debbano versificare: perciò, in maniera congruente alle necessità poetiche, il verso della nostra sembra investire ogni elemento della vita nel suo effluvio monologale.

Tacitamente lirico, poiché il punto di vista del verso (seppur silente) incardina un riflesso dell’abilità poetica della scrivente, dal vario metro e dal ritmo concitato, il canto dell’autrice si impernia nella musicalità della parola per poter tessere la propria opera.

In questo frangente, in effetti, vedremo l’eufonia del verso come metodo sostanziale e formale della scrittura: per questo, la stratificazione delle figure di suono (tendenzialmente associate per coppie minime, e quindi per parole che differiscono solo per un fonema) stringe le maglie della composizione, disponendo una trama dalla notevole fattura, ed imponendo al contempo un senso per cui sia la musica stessa la ragione fondante del sema, tosto che una ragione comunicativa di fondo, ovvero extra-poetica.

Questo giustifica ogni mancanza di referenti grammaticali e sintattici ordinatori (e/o ordinati), restituendo una funzione della poesia più assimilabile alla necessità ieratica della poiesis, che un mero espediente semantico per cui la comunicazione comporti significati e significanti.

Così, come soffiando sulle braci della creazione non è possibile esalare anche del fumo, parimenti l’autrice sembra insufflare nel polmone percettivo del lettore un senso di coscienza-incosciente del verso, la cui portata non può che districarsi in un senso puramente verticale della parola, intridendo e con-fondendo il lettore nella lettura.

Ma se dovessimo rinvenire un contesto – rectius: se potessimo recuperare una “scena” ed un “attante” – l’elemento di certezza del canto si incardina nell’infanzia, e nell’ambiente domestico: tramite questi, infatti, la narrazione enuclea una soggettificazione e quindi il procedimento che da questa si snoda, involvendo paradossalmente (e più ermeticamente) in sé stessa.

Il che, coerentemente al titolo dell’opera ed al contenuto della stessa, il senso del dettato è puramente indirizzato in un respiro circolare, per cui si possa svolgere e ripiegare passato e presente, compiuto ed incompiuto, perfino infanzia ed essere adulti, in uno spazio corporeo ed incorporeo che raggiunge la propria completezza (fisica e spirituale) guardandosi alle spalle, ed in avanti, assieme.

 

Carlo Ragliani