Ho sbagliato tutto perché lo vedevo coi miei occhi – Elisa Longo

Ho sbagliato tutto perché lo vedevo coi miei occhi

Ho sbagliato tutto perché lo vedevo con i miei occhi, Elisa Longo (I Quaderni del Bardo Edizioni 2019).

 

Elisa Longo nella sua biografia definisce se stessa una performer. Scrive e recita i suoi testi. Ma cosa vuol dire esattamente performer? Maurizio Cucchi, nelle sue uscite stampa, non di rado si è scagliato contro questa pratica che vuole il medium della poesia nella voce.

Al che nasce spontanea una seconda domanda: cos’è una voce? Elisa Longo in questo libro frammenta voce e corpo, ovvero ciò che porta la voce, in diversi tasselli compositivi che non solo scompongono l’identità fisica, ma anche quella esistenziale. Una scomposizione talmente profonda e verticale che assume in sé l’altro.

Chi sono io?, chi sei tu? Una delle presenze più caratteristiche e caratterizzanti di questo libro è il tu. Montale ipotizzava un istituto, ma oggi può essere possibile?

 

Spero tu possa accettare / il tuo amore per sempre in me […] E io potrò restituirti calzini, / fotografie e il televisore.

 

Il tu in Elisa Longo è una frammentazione, una dispersione, dei vari pezzettini dell’io. Vi è in questo una sottesa critica alla società che ci vuole soli, sempre soli.

 

La solitudine s’inventa le cose: / fa spuntare uomini invisibili […] può farti credere / che oggi sarà l’ultimo giorno / in cui ti sentirai sola.

 

Un tu che non è solo tu ma è altro. È un tu, un io, un noi. È una possibilità.

 

L’oceano mi ha raggiunto. / Ha portato un cavalluccio marino in bassorilievo, / se ne stava infagottato in un bozzolo bianco […] Era piegato a un punto interrogativo, / o forse solo un punto / in tutto quell’oceano.

 

Questa possibilità è esattamente la capacità, del poeta quanto della sua voce, di comprendere che la frammentazione policromatica dell’io, la non possibilità di identificare un io e un tu non coincidenti, è anche la possibilità dell’io d’essere liquido, di cambiare.

 

Orizzonte di campo: / sole e schiene chinate / a strappare bozzoli avorio. / Cresce l’aglio / e cresco anche io.

 

Una possibilità animale, sensuale, un piacere del sesso quanto della mente. Questa è la consapevolezza che Elisa Longo fa emergere dalle pagine e che prende di petto, quasi come un urlo, la vita. Un canto d’amore che passa dalle gambe, dai fianchi, dalle mani e dalle scapole, dalle labbra, dai capelli. Miriadi di tasselli che compongono un io che spesso coincide con l’archetipo dell’essere qualcosa che ha consapevolezza, che si riflette nell’altro, che si scopre.

 

Non è mai stato un capriccio, / volerti, / tu che conosci la mia bocca / e quanto mare diventa nella tua […] Noi facciamo che è sempre una mattina di sole, / lo zaino sull’attenti, / gli scarponi impolverati, / la borraccia che perde, / noi abbracciati in una grotta in riva al mare.

 

Sono questi i primi e gli ultimi versi de Ho sbagliato tutto perché lo vedevo con i miei occhi e dimostrano immediatamente l’organicità della raccolta, quasi un’unica lunghissima poesia in diversi momenti. Dove l’errore dichiarato dal titolo trova una sua possibile soluzione nel rapporto con un tu che altro non è che un altro frammento dell’io, della sua voce.

 

Tu dimmi adesso cosa posso fare, ora che mi si è rotto il mare, dice la poetessa nell’unico testo con la data: 15 agosto 2018.

 

Torniamo quindi alla domanda iniziale: cos’è la voce? Cos’è un performer? Per Elisa Longo, forse, un atto d’amore totalizzante che nomina e possiede tutti i frammenti che, indiscriminatamente, tutti siamo. Sentendoci soli. E che l’espressione artistica e performativa per un attimo ricompone.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
La solitudine
 
La solitudine s’inventa le cose:
fa spuntare uomini invisibili,
mette battiti cardiaci,
costruisce i “noi” senza fondamenta;
può farti credere che un fiammifero spento
sia il fuoco,
può farti credere
che oggi sarà l’ultimo giorno
in cui ti sentirai sola.
 
 
 
 
 
 
La mula Peppina
 
Orizzonte di campo:
sole e schiene chinate
a strappare bozzoli avorio.
Cresce l’aglio
e cresco anche io.
 
Io in groppa a Peppina
mula secca, sudata e lucida.
Io a sciabolare parole all’aria
e giocare tra inchiostro e carta.
Mula sferza la coda ispida.
Mula mangiata dalle mosche,
si mangiano anche me,
si mangiano anche i sogni.
 
Mangiasogni che volano,
ronzano, pungono,
iniettano tracoma,
cecità e buio nell’anima.
Mosche che portano pensieri stagnanti,
Medioevo e forconi.
 
Io scaccio mosche,
mi faccio aria nuova
in groppa a Peppina,
io sento vertigine di altezze grandi.
 
Io seminata nella terra,
guardo il cielo,
gioco,
mi batto il petto nudo.
Io cresco con l’aglio,
sogno,
in groppa a una mula
che sogna anche lei.
 
 
 
 
 
 
Lupi
 
Randagi in una macchina tra lampioni, puttane e strade secondarie.
Sono uscita per la sopravvivenza del branco, cerco il suo erede.
Ti ho osservato a lungo. Hai le spalle ricurve e gli occhi bassi.
Ho capito prima ancora che ti girassi, non sei tu il nuovo alfa.
Lo sai che i lupi non si espongono mai in campo aperto?
Non ti hanno insegnato a osservare la tua preda da lontano?
Ti chini a raccogliere l’esca che ho lasciato cadere.
Non si voltano mai le spalle a una lupa.
Lo senti il fetore della solitudine randagio?
Tu chi sei? Chi chiami casa? Qual è il tuo territorio?
Il tuo odore mi arriva sottovento, sento le tue bugie.
Scappa, e comincerà la caccia.
Rimani immobile, e ti lascerò credere di essere io la tua preda stasera.
Ma con una zampata potrei farti male.
Un male che non hai mai conosciuto.
Cosa ne sai del sesso di carne e umori che rende schiavi nel cercarsi continuamente?
Cosa ne sai della monogamia degli alfa?
Sei un batuffolo giocherellone che sta scherzando con una femmina dominante.
Le lupe non sbranano i cuccioli
 
 
 
 
 
 
Case popolari
 
Te lo sei mai chiesta
cosa ci torni a fare qui alle case popolari?
Guardi la luna.
Il biglietto per lo spettacolo ha lo stesso prezzo per tutti.
La prendi anche dai tuoi palazzi cinque stelle,
senza abbonamento, la luna.
Cosa ci torni a fare qui
nei sobborghi lavoratori?
A guardare i miei occhi assonnati,
la pelle bruciata di gelo,
le mani tagliate.
Cosa ci torni a fare qui?
Dove la malinconia sonnecchia sul divano
e l’apatia si è mangiata ogni passo deciso.
Una macchina su quattro mattoni
ha i vetri appannati:
è una spiaggia e fuoco sul mare.
Lasciami sdraiata qui
con le mani sporche di calce
e cemento mangiato dal sole.
Lasciami sdraiata qui
con gli operai che escono per il turno di notte.
Lasciami riposare nel nero afoso.
Anzi no, torna qui
e senza chiedere dammi un bacio.
Cosa ci vengo a fare io con te?
E i tuoi pensieri dimenticano i miei.
E il tuo tormento pacifica il mio.
E forse il cuore torna a battere in petto a entrambe.
 
 
 
 
 
 
Vengo se vieni
 
No, non è presunzione
volersi bene a tal punto
da ritirarsi come un paguro
quando anche il mare lo fa.
Aspetto un tale fracasso di onda
che rischia e si allunga a stanarmi.
Presentarsi alla porta e capire
che mi voglio bene a tal punto
da aprire solo a chi busserà.
 
 
 
 
 
 
Mi mangi
 
Mi mangi a grossi bocconi.
E la tua ingordigia mi divora.
So già che morirò per mano tua.
E anche se adesso sono qui,
sotto un cielo pieno di rondini,
sono già morta per mano tua.
 
 
 
 
 
 
Mi manchi così
 
Mi manchi così:
un buco allo stomaco
in questa sospensione di presente.
E mi viene persino da piangere
come a una bambina a cui è caduto il gelato
 
 
 
 
 
 
Poesia
 
Alla poesia non serve una chitarra,
è il suono di chi non ha parole.
Se le metterete il velo da sposa,
s’imbriglierà nella veste.
 
Buttate la poesia tra le gambe di una donna che passeggia,
ondeggia,
senza musica.
Spalanca tutte le bocche.
Parla tutte le lingue.
 
 
 
 
 
 
Può bastare così
 
Può bastare così
la vita,
se la vuoi depilata,
smussata,
senza buchi in cui inciampare.
 
Invece,
se osi avventurarti
oltre il ruvido dei bordi,
da quei pertugi scuri,
si aprono vuoti d’aria,
fatti per rovesciarti lo stomaco,
appenderti per i piedi
o prenderti alla gola.
Sentirsi vivi
è spesso,
soffocare?
 
 
 
 
 
 
Fioritura
 
E se è vero che qualcuno sa già tutto
Ditemi quando sarà,
quando suonerà il requiem,
quando mi bruceranno al crematorio:
ditemi l’ora,
la fine di questo Carnevale.
 
Come la Titanca,
nei suoi cento giorni
annunciano che fiorirò una volta sola
e poi mi porterà solo il gambo fino alla fine.
Ma non è nei suoi anni la mia vita:
io fiorisco mio malgrado ogni ora.
 
E la mia visione è cieca da qui dentro,
ma il silenzioso aprirsi di una vena,
l’aritmia di un colpo in petto,
il dedalo di pensieri che continuano,
tutto questo sento in me
schiudersi come la Rosa di Gerico,
dai petali macchiati di pioggia,
nel colori eccessi che poco si adattano alla tenerezza.
E se questo mi è dato di essere,
non una bianca Margherita,
ma una calla rossa e sghemba,
io mi prendo a fioritura
piuttosto che incurvarmi su me stessa.
 
Perché questo siamo,
senza stabilire niente
non possiamo che fiorire,
siamo noi l’ora, il giorno e anche il Carnevale.