Guardare il mare non era necessario – Massimo Dagnino


 
Anche se sconsigliato avrei voluto
aderire agli oggetti.
Di lì a poco gli oggetti sarebbero rotti
dando origine a figure: personaggi all’interno
di uno scenario sdato.
 
A Pallanza gli alberi sono attratti
dalla massa d’acqua, si spingono
incarnando la forma
del vento.
 
Guardai dal vetro mentre stava
piovendo – novembre – in uno stato
di eccitazione sparare alle Muse.
 
 
 
 
 
 
Si apre al vuoto la sequenza di edifici:
in dissolvenza multipla le linee
del volto mostrano una costante
esitazione; sfiata l’ansia di prolungare lo «stare per».
 
Un picco, si è aperta una breccia.
Dalle pagine si scollano periodi
– strisce di pioggia sul mare –
la vista vola in vertigini come l’aquila
desertificata
traversa la carta.
 
Curve orografiche dispiegano abitazioni
attraversate da una pace inumana.
 
Al limite del tramonto
un paesaggio di voci
una vegetazione mistificata:
 
irrompe un passato molecolare.
 
 
 
 
 
 
È sempre assolata via Cassanello,
l’asfalto si è inghiottito i binari di un tempo assieme
alle passeggiate sul terriccio.
Memorie su memorie si addensano nel cervello
ma in un baleno un senso
di vacuità, ne acuisce la dispersione.
 
Da “Guardare il mare non era necessario” in Nuovi poeti italiani n.7 (Einaudi, 2024)
 
 

Continua la lettura dei testi dei Nuovi poeti italiani n.7 curato da Maurizio Cucchi per Einaudi (2024). Dopo Silvia Caratti (QUI) leggiamo Massimo Dagnino.

Se la Caratti proponeva una poesia della composizione, Dagnino al contrario esprime una poesia della dispersione, un continuo rapporto con un paesaggio (oggettivo o metaforicizzato nell’umano) che altro ve viene definito “monitorato”, dove “passavano spezzoni di cose” o “un’alba dissipata elargisce”. Un paesaggio quasi colloidale e sospeso dove “memorie su memorie si addensano nel cervello”, un “passato molecolare”, un “senso / di vacuità” che “ne acuisce la dispersione”.

In Dagnino l’indeterminatezza coincide con la sospensione delle cose, dell’io nella realtà e nel tu a cui si riferisce. Dagnino crea vere e proprie tavole cinematografiche non nebulose ma chiaramente disseminate in una lotta silenziosa tra le parti (non a caso più avanti dirà “lascio che la casa prenda il sopravvento”).

Un paesaggio di voci / una vegetazione mistificata”, nella ripetizione della v disegna (Dagnino è anche disegnatore) e suggerisce un’identità unica fra le parti, mondo e uomo, benché “attraversate da una pace inumana” come “l’aquila / desertificata traversa la carta”.

Di Dagnino si nota soprattutto l’uso di un linguaggio ampio nella scelta lessicale (“Curve orografiche”, “passato molecolare”) che hanno il pregio di non appesantire né d’apparire innesti forzosi. Apprezzati o meno appaiono una sorta di firma dell’autore che eppure ammette di “in uno stato / di eccitazione sparare alle Muse”.

Alessandro Canzian