La monografia su Gozzano di Gianfranco Lauretano è scritta col tono di chi sa e sa spiegare bene le cose, con piglio affabile, pur concedendo delle perle anche ai palati più esigenti. La struttura del saggio segue l’andamento della biografia di Guido Gozzano, soffermandosi sugli aspetti decisivi per la sua poetica, entrando e uscendo di volta in volta dai testi.
Il libro fa parte della collana di saggi monografici delle Edizioni Ares, dedicati a figure forti della letteratura novecentesca e contraddistinti proprio per l’equilibrio tra la sapienza con cui si delineano gli autori e l’afflato divulgativo, che attrae anche un pubblico di non addetti e che può essere spendibile in ambito didattico.
Roberto Cescon: Innanzitutto vorrei chiederti come nasce l’equivoco che assoggetta il “bel Guido” alla categoria crepuscolare, visto che tu sostieni egli sia molto di più e diverso. I suoi contemporanei lo consideravano un autore minore (per Tozzi è un “tappo di sughero”, Palazzeschi e Lucini non lo ammirano), oppure ne intuivano già l’originalità (D’Annunzio avrebbe confidato ad Amalia Guglielminetti il suo vivo desiderio di conoscerlo), in particolare colpisce l’analisi di Renato Serra della sua “poesia borghese”, “poesia provinciale”.
Gianfranco Lauretano: L’inventore del termine “crepuscolare”, come sappiamo, fu il critico Antonio Giuseppe Borghese, che era tra i più autorevoli quando, nel 1910, pubblicò sul quotidiano «La Stampa» un articolo in cui coniava il termine. Si riferiva in realtà a tre giovani poeti che appartengono, per lui, alla categoria “dei lirici che s’annoiano e non hanno che un’emozione da cantare: la torpida e limacciosa malinconia di non aver nulla da dire da fare”. Una bella botta. Ma Gozzano non è tra questi: è considerato semmai un po’ il loro maestro per cui, più che di equivoco, si tratta di una riduzione, perché la sua poesia è ben di più.
È intervenuta poi negli anni una specie di pigrizia critica: nel parlare degli autori ci si appoggia alle facili definizioni, tra cui, appunto, quella di “crepuscolarismo”. Io la chiamo la critica “per sentito dire”: quella degli estensori delle antologie scolastiche, di certi elzeviristi letterari, persino dell’Università. Vale per tutti gli “ismi”, ma mi pare che Gozzano sia stato particolarmente penalizzato da questa etichetta che è luogo comune. Infatti Renato Serra, che era un genio critico, non la usa, pur conoscendola bene.
R.C.: In diversi punti del tuo lavoro compari in prima persona, sulle tracce dei luoghi gozzaniani, a Torino, nella villa del Meleto nel Canavese. Cosa ha significato per te? Ti ha dato una prospettiva diversa per costruire il libro?
G.L.: Si tratta del metodo critico che applico da molti anni, dopo averlo appresto da maestri come, ad esempio, Tat’jana Kasatkina. Il percorso di conoscenza umanistico, critico, letterario (chiamalo come vuoi) è tutt’altro da quello scientifico. Uno scienziato è un soggetto, una persona, che entra in rapporto, per conoscerlo, con un oggetto, un fenomeno (fisico, chimico, naturale): è un rapporto insomma da soggetto ad oggetto.
Uno scrittore, un libro, un’opera di poesia come quella di Gozzano, invece, non sarà mai un oggetto: anche se si tratta di una “cosa” (una raccolta di poesie) manterrà sempre l’irriducibile statuto di soggetto. Io entro in campo personalmente nei miei studi perché credo che il rapporto critico sia da soggetto a soggetto. Mi fanno pena quei docenti, spesso accademici, che trattano i testi o un intero autore come oggetto. E quegli insegnanti di lettere che applicano nella valutazione degli studenti gli stessi criteri dei loro colleghi di discipline scientifiche. Si tratta del troppo diffuso complesso di inferiorità degli umanisti.
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