Giuseppe Ungaretti


 
 

Chissà che impatto profondo, aldilà della superficie, devono aver avuto rispetto al dannunzianesimo imperante quelli che qualche critico supponente oggi chiama i “versicoli” di Giuseppe Ungaretti (dando più valore alla prosodia, alla metrica e alla maturità del “Sentimento dl tempo” e del “Dolore”). Per Ungaretti “Uomo di pena”, dal “cuore il paese più straziato”, per cui la poesia, anche in guerra, “è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento”, per cui tutti i soldati sono “fratelli”, ci lascia nel “Porto sepolto” il rifiuto totale della guerra. Di Ungaretti (dopo un secolo) rimane tutto.

Compresa la leggenda del Nobel andato a Montale invece che a lui, con trascorsi fascisti.

Rileggendo “Il porto sepolto”, la poesia “I fiumi”, che tanto dice dell’autore, rimane una delle più belle del ‘900. Le date in cui si inscrive la vita di Ungaretti sono 1888 e 1970.

 

Pierangela Rossi

 
 
 
 
In memoria
(Locvizza il 30 settembre 1916)
 
Si chiamava
Mohammed Sceab
 
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
 
Amò la Francia
e mutò nome
 
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
 
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
 
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
 
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
apposito vicolo in discesa
 
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
 
E forse io solo
so ancora
che visse
 
 
 
 
 
 
Veglia
(Cima Quattro il 23 dicembre 1915)
 
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
 
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
 
 
 
 
 
 
I fiumi
(Cortici il 16 agosto 1916)
 
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
 
Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato
 
L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
 
Ho tirato su
le mie quattr’ossa
e me ne sono andato
come un’acrobata
sull’acqua
 
Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole
 
Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
 
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia
 
Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
felicità
 
Ho ripassato
le epoche
della mia vita
 
Questi sono
i miei fiumi
 
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre
 
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle estese pianure
 
Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto
 
Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo
 
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre