Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

 
 

Giovanni Pascoli (1855-1912) nel 1897 scrisse il manifesto del “Fanciullino”: solo il poeta ha accesso alla dimensione ultramondana della funzione consolatoria della poesia. Poeta decadente, è tra i maggiori in Italia. Si studia nelle scuole elementari per la chiarezza del dettato e per la vivacità dello dello stile. Inoltre non affronta mai temi scabrosi (non di tutti si può dire), ma sempre con un fondo moraleggiante realizzato dal simbolismo. Poeta facile? Non scherziamo. “Neppure in un’edizione popolare a larghissima tiratura ci si attenta oggi a lasciarlo andare in giro senza accompagnamento, senza un’avvertenza o un’istruzione sui modi d’uso” scrive Luigi Baldacci nel volume Pascoli delle meritorie garzantine (1974). Nell’introduzione a Myricae (1891-1903) Pascoli scrive (nel marzo 1894): ci chiama “a benedire la vita, che è bella, tutta bella; cioè sarebbe; se noi non la guastassimo a noi e a gli altri. Bella sarebbe: anche nel pianto che fosse però rugiada di sereno, non scroscio di tempesta; anche nel momento ultimo, quando gli occhi stanchi di contemplare si chiudono come a raccogliere e riporre nell’anima la visione, per sempre”.

Pierangela Rossi

 
 
 
 
Il passero solitario
 
Tu nella torre avita,
passero solitario,
tenti la tua tastiera,
come nel santuario
monaca prigioniera
l’organo, a fior di dita;
 
che pallida, fugace,
stupì tre note, chiuse
nell’organo, tre sole,
in un istante effuse,
tre come tre parole
ch’ella ha sepolte, in pace.
 
Da un ermo santuario
che sa di morto incenso
nelle grandi arche vuote,
di tra un silenzio immenso
mandi le tue tre note,
spirito solitario.
 
 
 
 
 
 
Nevicata
 
Nevica: l’aria brulica di bianco;
la terra è bianca; neve sopra neve:
gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco:
cade del bianco con un tonfo lieve.
 
E le ventate soffiano di schianto
e per le vie mulina la bufera;
passano bimbi: un balbettio di pianto;
passa una madre: passa una preghiera.
 
 
 
 
 
 
La Sirena
 
La sera, fra il sussurrìo lento
Dell’acqua che succhia le rena,
dal mare nebbioso un lamento
si leva: il tuo canto, o Sirena.
 
E sembra che salga, che salga,
poi rompa in un gemito grave.
E l’onda sospira tra l’alga,
e passa una larva di nave:
 
un’ombra di nave che sfuma
nel grigio, ove muore quel grido;
che porta con sé, nella bruma,
dei cuori che tornano al lido:
 
al lido che fugge, che scese
già nella caligine, via;
che porta via tutto, le chiese
che suonano l’avemaria,
 
le case che su per la balza
nel grigio traspaiono appena
e l’ombra del fumo che s’alza
fu forse il brusìo della cena.