Gian Mario Villalta

Bozza automatica 323

foto di Dino Ignani

 

Michele Paoletti intervista Gian Mario Villalta

 
 

Il tempo passa attraverso, lasciando tracce che spesso non riusciamo a cogliere. Lo scorrere dei giorni col loro ritmo imprevedibile è qualcosa che non possiamo controllare, eppure in ogni attimo si cela una forma di meraviglia. Sta a noi spalancare gli occhi, tenerci sempre pronti allo stupore. Il poeta si trova in una posizione privilegiata, osserva e s’incanta di fronte all’umile coppia nel giorno delle nozze e tuttavia già intravede quel ciclo inesorabile di nascita-morte-rinascita al quale crediamo di poter sfuggire. I versi di Gian Mario Villalta insistono sullo stare qui e ora, abbandonarsi nel sogno di un letto-albero che ci germoglia intorno, finché l’incanto è rotto ancora dallo sguardo che si sofferma su un dettaglio, misura dello scorrere del tempo, uno sguardo che ti stana / nel cieco del sangue, nei millenni / senza stagioni.

 
 

Nelle poesie che seguono l’intervista il tempo ha un ruolo fondamentale.

Noi, noi esseri umani, siamo tempo. Lo siamo più di quanto l’esperienza ordinaria ci insegni: mentre la fisica contemporanea nega una dimensione propria al tempo, le neuroscienze ci portano a comprendere che il tempo, quello dell’esistenza ma anche della vita pratica, è una creazione del cervello umano. Percepiamo, esperiamo, decidiamo in questo tempo, lo strutturiamo in una memoria che è la nostra stessa identità, l’unicità della nostra vita così come l’appartenenza alle vite degli altri.  E tutto ciò viene sempre più in evidenza quanto più è forte la mediazione tecnologica (nella percezione, nella produzione e nella comunicazione) che ci allontana dal vivo impatto con quell’appartenenza terrestre, con quella potenza generatrice, che per migliaia di anni è stata testimoniata come fondamento del pensiero e della poesia e che in parte nella mia prima infanzia in una civiltà contadina ancora intatta ho vissuto. Oggi nella vita, come nella poesia, si tratta di non accontentarsi di risolvere quest’appartenenza alla terra in un gesto estetico, ma di interrogarne le possibilità ancora vive, di afferrarne i segnali e seguirne le tracce.

 

La poesia può offrirci una forma di salvezza?

Fuori da un contesto cristiano la parola “salvezza” è difficile da recepire. Se non dobbiamo salvare lo spirito dalla carne, uscendo dalla dimensione del peccato, che cos’è che intendiamo oggi con la parola “salvezza”? Forse l’inautenticità? O qualche aspetto psicologico che potremmo definire con le parole paranoia, schizofrenia oppure depressione? Una terapia, dunque? In senso molto ampio, perché no? Una terapia della vita, nel rapporto con l’ambiente in cui viviamo, con gli altri, perché no? A patto che sia un confronto vero, che siamo disposti a qualche fatica e sofferenza, a qualche nuova e imprevista, dapprima irriconoscibile, gioia. A una certa distanza dall’idea della terapia e di ricerca dell’autenticità rimane la “grazia”, se essa si potesse calare in una dimensione tutta terrestre, come ipotesi di quello che sappiamo un bene vigente oltre le nostre modeste facoltà di pensare e di fare il bene: la poesia, a volte, ce ne fa presentire la possibilità.

 

Parlando di Telepatia (LietoColle, 2016) Roberto Galaverni afferma che “queste poesie nascono giusto all’incrocio tra la consapevolezza della propria disillusione e l’attenzione rivolta dal poeta al mondo dove vivono gli altri”. Qual è il ruolo del poeta nei confronti di una vita che semplicemente accade?

Gli accadimenti che costituiscono la vita non possono mai colmarne la richiesta di senso, perché sono, bene che vada, molteplici nei modi e nei tempi, diversi nelle forme e nelle relazioni, irriducibili a unità. Questa mancanza di unità chiede senso, è vero, e lo chiede in particolare alla parola, perché è nella parola che la mente e il corpo trovano il loro più alto e profondo luogo di incontro. Ma anche, incontrandosi, creano qualcosa d’altro, che va oltre la disillusione (che per me è “rifiuto di illudersi”, non “delusione”) e ha bisogno dello sguardo, della parola, del gesto degli altri per riconoscersi e cercare una via di sopravvivenza.

 

Come nasce un tuo libro di poesie? Qual è il tuo rapporto con il lettore?

Nel tempo. Un mio libro di poesie nasce nel tempo. E sempre dal farsi e dal disfarsi di un progetto che viene investito dalla vita nel tempo della scrittura. E poi nasce nella dimensione di una voce che cerca (e talvolta trova i confini di) una forma.

È chiaro che il primo lettore, che sono io, mentre scrivo, viene ad essere anche un altro: se la poesia non mi sorprende almeno un poco, non mi porta qualcosa che non sapevo né sentivo prima di cominciare a scriverla, non è una mia poesia, perché non è neppure un po’ dell’altro, e quindi non può avere un lettore. Ah, il lettore! Anche lui deve essere se stesso, e anche un altro, facendo i conti, come voleva Baudelaire, con ciò che ci accomuna, o addirittura ci affratella, ma ipocrita come tutti nel tenere stretto il suo vero io. Se un poco cede a mostrarsi, quando legge, la poesia avviene.

 

Come definiresti la tua poesia?

Non sta a me. È passato, mi pare, il tempo in cui i poeti si sistemavano da sé nella storia della letteratura. Per il momento non è neppure chiaro se sia la poesia a definire me. Il mio compito, mi pare, è quello di credere che ci sia e di far sì che si realizzi una condizione che mi rende possibile scrivere una poesia che io stesso riconosca come tale, ovvero che mi esponga nella parola e mi porti dalla parola qualcosa che altrimenti non avrei né pensato né detto.

 

Recentemente è uscito il romanzo Bestia da latte (Sem, 2018). Ce ne vuoi parlare?

La narrazione, e in particolare quella che assume la forma-romanzo, ha regole di composizione diverse da quelle della poesia, una diversa presa sulla vita. In questo libro ho voluto portare il lavoro della coscienza all’incrocio tra identità e storia, nel momento in cui – uscendo da un’infanzia paradossalmente “normale” – si scopre la solitudine. Ho scritto “paradossalmente” perché non esiste un’infanzia normale, dato che essa si determina davvero nel corso dell’uscita dall’infanzia, che è la domanda che ognuno si pone e pone agli altri sulla normalità.

La vicenda del romanzo è quella di due cugini, cresciuti per un periodo “paradossalmente” come fratelli (ripeto l’avverbio, che anche qui ha un suo peso). La vita li divide. Ma si scopre che la vita di un bambino è per molto tempo la vita degli altri, quello che gli altri trasmettono e chiedono. E poi, per diventare vita sua, deve perdere una parte di quello che gli altri erano per lui, ma anche di quel bambino che lui stesso è stato.

Mi piacerebbe anche dire che ho scommesso sull’intensità della costruzione formale e dell’espressione in parole, sulla possibilità di riconoscersi di ognuno, sulla commozione e sulla riflessione riguardo al presente di tutti. Ma se la scommessa è stata vinta lo può dire solo il lettore.

 
 
 
 
Parlano così forte, ripetono frasi,  i denti guasti si vedono, sono felici
oggi che la fabbrica è chiusa e si credono detti di nuovo nel candore
finto degli sposi: ci sarà sempre la pelle della primavera,
sangue, silenzio, una nascita, un’altra stagione
prima che qualcuno mostri di nuovo la croce
dove adesso piove il riso a manciate sui pochi gradini della chiesa.
Il tempo passa attraverso e pare possa più di una volta.
La coppia di cera in cima alla torta fissa tutti da ore.
 
 
 
 
È domenica nei parcheggi, il frigo fa le fusa in cucina,
il tuo respiro viene a prendermi nel respiro.
Prima di dirlo, è nuotare in un sonno più dolce,
sconfinare le labbra, aprire le finestre
a un segreto, mai
crediamo di fingere.
La domenica con le ginocchia sbucciate
e la maglietta a righe, con tutte le canzoni
delle estati passate bussa alla porta della cantina,
c’è buio dentro, in fondo all’acqua freddo,
così freddo che non vedo più il viso.
È corteccia, il letto, rami intrecciati, è pieno
di germogli e di foglie gialle.
Mi piace finché non vedo il tempo nella tua mano.
 
 
 
 
Non basta mai il buio quando la diga del giorno
tracima oltre l’unica
mezzanotte, quando i minuti collassano
e nessuno diventa pensieri nelle immagini
dove non puoi scomparire
allo sguardo che ti stana
nel cieco del sangue, nei millenni
senza stagioni.