from the dairy of jonas & job, inc., pigfarmers – Damiano & Abeni


from the dairy of jonas & job, inc., pigfarmers, Damiano & Abeni (ikonaLíber, Roma, 2017)

L’opera from the dairy of jonas & job, inc., pigfarmers di Damiano & Abeni (ikonaLíber, Roma, 2017) prende avvio, sin dal titolo, dal microcosmo delle diciture standardizzate del mercato e della provincialità territoriale, dai meccanicismi della quotidianità percepita come poco lirica ma edonistica (“da DAI LATTICINI DI GIONA & GIOBBE, S.p.A., SUINOCULTORI Ovvero Prodotto in Sardegna, data di scadenza: 21 luglio duemila e.”), per inoltrarsi in un discorso di rimandi promiscui, eterogenei ed eterodossi a dimensioni, sfere e realtà macroscopiche, lontanissime e, proprio perché così lontane, culminanti nell’antipodo più remoto che si possa concepire: il proprio sé.

Il linguaggio si mostra ipersemantico: è una scrittura plastica che si cimenta arditamente nella ricostruzione di puzzle i cui tasselli sono ritratti espressionisti di frangenti temporali e spaziali rappresentati in un’ottica alternativamente soggettiva e collettiva.

Il senso del tragico e l’ironia si mischiano riproducendo tutta la complessità di una gamma molto variegata di sensazioni ed ipotesi esistenziali: “Ma le badanti/diagnosticano che quando niente rimane niente/va perduto. Penso seriamente a «fuori dai piedi»/come trimetro trocaico per la mia pietra tombale, ma preferirei/maggiore concisione”. L’attenzione alle ricorrenze di suoni consonantici all’interno di uno stesso verso trae probabilmente spunto e vigore dalla medesima ricerca della musicalità che l’autore opera nel suo più conosciuto atto traduttivo.

Il dettato testuale appare esaltato – e non caducato – dai cenni alle realtà geografiche ed antropologiche più varie e divergenti, nonché da piccole frazioni di routine in cui si formulano lampi di pensieri sfuggenti: “La deriva dei jeans, ovvero la principale/spinta evolutiva su facce mutanti ed equivalenti, sui sedili posteriori/dei princìpi della struttura dissipativa del corpo della realtà/contemporanea, ha portato a un’auto-organizzazione pioneristica./Adesso è chiaro, a metà. Il cellulare funziona, ma i buoni odori/di cibo che salgono dal mercato ci intristiscono”.

Il riferimento all’esperienza della malattia di una persona cara si articola in un linguaggio ricco di pathos – al modo perennemente sarcastico e disinvolto, mai pomposo di Abeni – e tende a una maggiore concisione e a una più fitta consecutio logica con cui viene mostrata – e non spiegata – tutta l’incomprensibilità di quei fatti e della loro percezione perdurante e agente nel tempo presente.

La narrazione si articola in locuzioni apparentemente scollegate fra di loro, da ricomporre attraverso i suoi collegamenti intertestuali di ordine semantico e intuitivo. Compaiono termini tecnici, scientifici, medici, toponomastici, linguistici, talvolta perfino dialettali che non necessitano di una precisa spiegazione: la loro collocazione nei testi sembra condurre il lettore a una percezione di senso che esorbita dal dato testuale e non abbisogna di un riconoscimento parola per parola.

La formulazione dei versi in una lingua (l’inglese) che non è quella madre – seppur ampiamente dominata dall’autore, forse dominante sia a livello personale che letterario – e la successiva auto-traduzione, rappresentano il trasporto del sé nel sé, e nel se come particella dubitativa sempre presente.

I significanti si stratificano vertiginosamente nei versi e l’io autoriale viene ritratto nella posa impossibile di un perpetuo adattamento ai troppi significati.

In bilico sul nonsense, è auspicabile, in fondo, sperimentarsi non solo equilibristi ma anche parti integranti di quello stesso filo su cui testare disequilibrio e sregolatezza, nonché la propria genialità (che qui è la tenuta del testo, e della robusta continuità di significazione).

Si assiste all’innesto di cenni più o meno espliciti a tematiche sociali e politiche (economia e mercati, razze, lavoro, branche del sapere, etc.) in una sorta di stream of consciousness personale, come a voler sottolineare che le dinamiche collettive hanno sempre una loro riproduzione in quelle interiori, e che ciò avviene anche al contrario, nella prospettiva di capovolgimento dell’individualità nella società: “La predazione è una cura della senescenza. Meno/un evento che un procedimento, pre-data i veri processi./Chiusi dentro fuori dal cancello, circa 150.000/lo fanno a questo mondo ogni giorno. Condizioni/una volta considerate indicative ora sono reversibili,/magari lo sono state per chissà quanto,/entro tre giorni./Generalmente si tratta di un declino costante/fino a raggiungere temperatura ambiente,/più difficile da muovere o manipolare”.

Le sezioni hanno, sempre, una costante e una variante nel titolo. Da un prodotto caseario dotato di nomi biblici che rimandano alle grandi, irrisolvibili questioni esistenziali e fideistiche (inerenti al senso della giustizia), si deduce una data di scadenza che non fornisce un numero bensì una riflessione, una categoria di pensiero, una battuta, una qualsiasi via di fuga dal deterioramento cui ogni cosa è soggetta. La sfida, almeno apparente, per il lettore, è quella di ricercare il nesso tra i testi e le singole sezioni ma non è detto che sia uno sforzo utile alla reale comprensione dell’opera.

Attraverso slittamenti semantici, calembour (“spesso assenti in una lingua, aggiunti nell’altra, a creare non traduzioni ma diversioni, diversità”, come scrive in nota Marco Giovenale) e una costante tensione demistificatoria non dell’abitudine ma della sua strumentalizzazione, è possibile seguire un racconto non raccontato dell’era contemporanea, delle sue stranezze, dei suoi inciampi rovinosi e dello stupore con cui l’uomo ammette la sua complessità (che, talvolta, è perfino divertente).

Ecco che affiora la poesia intellettuale in forma di apparente amusement: “Tutto è vagamente indifendibile e insopportabile./E se cerchi Gibbons su Tu Tubi, esce una scimmia./ Il peso dei sigilli deve affilare la corda/delle note, marcare intervalli oscuri e rampe oblique,/per esplodere nella trasposizione da maggiore/a minore. Luna d’acanto, il cielo/non lo nomineremo affatto”.

Compare una breve auto traduzione dall’inglese al francese, forse per il suono allitterativo o per un ulteriore vezzo del frammento, così come si trova una lapidaria, mancata traduzione dall’inglese, a ricordare ancora una volta la pluralità incontenibile della lingua che esonda dalla sua stessa koinè e si fa realizzazione di poliglottismo, apertura al dissimile unita alla volontaria rinuncia a uniformarlo.

D’altronde, ogni singola parola è come un gesto politico che appartiene al suo specifico ambito comunicativo e ha bisogno dell’intero contesto per essere decodificato: “Un corso preliminare/di formazione all’inanità acquisita, imparata, è il nostro paese./E se il coefficiente di correlazione intraclasse/supera lo 0,667, secondo i principi della retroazione positiva/il rating dei quarterback resterà quello che è. Ciò/non pertiene alla lettura precedente. C’è/un sacco di vuoto lì fuori: io canto il corpo eclettico”.

Se la settimana della creazione viene invertita e inizia con il silenzio dell’inazione che, dal nulla fare, porta alla consapevolezza e alla creatività, parimenti focale è la trasfigurazione ironica del dio biblico nello sdoppiamento traduttivo ed esistenziale dell’io poetante (“damiano & abeni sono gli pseudonimi di due allevatori di maiali (…) convinti di essere l’uno la traduzione dell’altro”, ed ecco palesarsi un ulteriore significato della presenza dei testi bilingue).

Questi due personaggi, che esistono soltanto nella loro relazionalità, scoprono di poter fare esperienza di sé stessi e del mondo, e di potere perfino imparare qualcosa: il crollo degli dèi in favore degli individui, la sopravvivenza alla catastrofe del capitalismo etico ed emotivo, l’unità e l’unicità umana da cui stavano scappando.

Gisella Blanco

 
 
 
 
Un maggiore in la bemolle, chi l’ascolterebbe—per non dire
chi gli ubbidirebbe? Distanti dall’equilibrio, abbiamo continuato
con la stessa stenografia delle emozioni:
dalle particelle elementari a quelle post-laurea.
La corrispondente indeterminatezza continua a riferire
da zone di guerra: sulla sua sedia a rotelle, in modo saggio
approfittano dell’ascensore, la fanno rotolare
lungo torrenti anadromi di cose che iridescentemente
individuiamo grazie all’esperienza, alla resilienza,
e all’osservazione. Una mattina ci si sveglia
e si trova l’invasore. Cara,
siamo assolutamente liberi, ma ciechi.
Mi sto ripetendo?
 
 
 
 
 
 
Per lo più lei scivola nei crepacci tra sonno
e sonno. I suoi sogni formano forse una specie
di forma sferica, così: un lago di tempo
a cui manca il presente, senza posa sottomesso
a un’imprevedibile immobilità. Lei
non li consuma, questi sogni. Per lo più, in vero,
si fa sempre più giovane tra i sogni.
Così questi casamenti squadrati bloccano
i tramonti a cinquecento chilometri da qui.
Ma adesso ho capito dove eravamo allora.
 
 
 
 
 
 
È duro, perché il corpo recalcitra,
passa indietro la palla dove non c’è il portiere,
rifiuta di ubbidire al sopra-di-sé.
Il corpo brama l’inorganico, l’impressione mentale
di se stesso, una specie di caprice
des dieux per manichini. Dovremmo farlo adesso,
se il sicario riuscisse a trattenere in un retino
da farfalle le conseguenze. Come un neonato nudo,
come gemiti che affogano nei numeri. Gioco vero,
abbandono. Misticismo è mistificazione.
L’anima è un falso, ad esempio. Il rifugio
della “mia bestia”, invece, ha un ruolo, anche
se tu non ne hai nessuno. Forse faresti meglio
a chiudere gli occhi.
 
Non credere niente, nemmeno niente.
Di cosa parli? Dove
vorresti andare a parare? Amore. Amore?
Ironico, sarcastico, spiritoso o solo comico?
Scherzi? Tu ti de-testi: non c’è altro amore
che l’amore di dio, ovvero non c’è
altro amore che l’amore. Non c’è
altro amore, non c’è altro.
Tu ami la tua paura della ferocia, del furore.
La tua bestia è nella mia giungla.