Fortissimo – Matteo Bianchi

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Fortissimo, Matteo Bianchi (Minerva Edizioni 2019).

Esce, per i tipi di Minerva Edizione, l’ultima opera di Matteo Bianchi. Edito a febbraio 2019 già a giugno ha meritato il Premio Maconi-Giovani. Un’opera che non lascia indifferenti, e che talvolta arriva addirittura a commuovere per la capacità, pacatissima, di raccontare un sentimento.

Di chiara e dichiarata derivazione dalla poesia di Sbarbaro, di cui Bianchi afferma d’essere opposto ma non contrario in riferimento alla prima sezione del libro dal titolo Fortissimo, la poesia si srotola nella pagine con una pacatezza elegante, appena toccata ma non per questo meno acuta.

Il tema principale delle due sezioni (Fortissimo e Mezzopiano) è un sentimento amoroso vissuto nella sua interiorità non esclusiva, ma nemmeno inclusiva il lettore. Bianchi, che pure affina con attenta perizia stilistica il verso (e nella prefazione/cinque domande lo spiega) non tende alla ricerca di una verità universale nello stesso modo in cui non tende alla mera esposizione del proprio vissuto.

Vi è un ragionamento di (sotto)fondo che serve a coprire il silenzio, non a colmarlo (sempre dalla prefazione in forma di cinque domande all’autore) in un movimento di trenta prose poetiche di matrice diaristica introdotte da un testo poetico che funge da chiave di lettura, da spiegazione iniziale non tanto del diario quanto del tono.

Perché in Bianchi l’accadimento è sempre minimo, quotidiano, quasi invisibile se non all’attenzione di chi osserva e talvolta anche l’osservatore è disattento (perdo di continuo attenzione nei dettagli, se non i suoi). Ai più inosservato pare perdere per sempre, nel mare magnum delle cose belle che nessuno ricorda più, la propria esistenza. In questo il poeta traccia appunto un diario, un memoriale che non solo narra ma addirittura evoca, ricorda le imperfezioni, le imprecisioni, le vertigini morbide dell’accaduto. Senza grida, senza colpi inferti. La vita accade tenue, l’amore si svolge sottilmente, secondo misura (Ma va bene così, per forza di cose. La misura che mi aspetto non ha conto).

Il pathos in Bianchi è un pianeta che ruota su se stesso (ho sentito sotto i piedi che la terra è tonda e gira su se stessa come me, a differenza vostra che dentro credete sia piatta). Che comincia a creare albe e tramonti. Più grande è il pianeta più sembra andare piano ma, al contempo, porta in sé più cose.

Bianchi, consapevole di questa dinamica, non di rado si appoggia a miti e riferimenti (Prometeo, Psiche, Dante, Orfeo ed Euridice, Buzzati, Poe, Char, Pavese) per dire la complessità di quanto si è vissuto, e si è capito, e che sfugge alle possibilità del linguaggio (d’altronde sappiamo bene che il linguaggio è una convenzione limitata che non riesce a esprimere appieno la realtà). Perché per Bianchi è importante far sentire ciò che è successo, anche a livello di pensiero, invece che dirlo. Il tentativo di creare comprensibilità nel testo prende il posto al tentativo d’impressionare, di colpire, tanto presente in buona parte di poesia contemporanea.

 

La seconda parte del libro, Mezzopiano, questa volta in versi, pur mantenendo la radice amorosa principale si snoda in testi anche di diverso argomento. Testi che tracciano l’io, la poesia, lo stare al mondo, l’ironia. Di particolare importanza alcuni versi che trattano della poesia:

 
Cos’è infine un verso,
se non un resto amato troppo
e raccolto ai limiti dell’io?
 
(da Itaca, quella volta – con Luigi Malerba)
 
 

L’io in poesia perde la sua centralità e diventa funzionale a quel resto amato troppo che va raccolto. Resto che inoltre evoca un già stato, un passato che pochissime pagine dopo torna quasi come un manifesto (e in pieno accordo con un’affermazione in prefazione):

 
«Non smetterò di volgermi al passato»,
ti provoco eccitato nella doccia,
sussulti – lo spavento – tremi
– penserai a tutte quelle impronte
in me che si sono fatte Forma –
scosti l’orecchio per orgoglio,
e ribatti: «perché ti ostini?»
«Non cederò la mia storia», la risposta
liberatoria di chi gareggia a trattenere il fiato,
nella fantasia di una vasca.
«Non posso fare altrimenti».
Se ogni foto avesse la sua verità nascosta,
passatempi fasulli per bambini,
la barchetta di carta che dondola
sarebbe solo un foglio di cronaca
piegato male.
 
 

E, come detto, nella prefazione in forma di domande:

Rileggersi ogni volta significa accettare il proprio cambiamento, sebbene parziale, e asciugarsi buttando qualche vecchio abito fuori luogo per l’io lirico attuale. Ogni volta significa pure confermare il medesimo senso di disappartenenza alla realtà, come chi ha la necessità di aggiustare di continuo le lenti per la messa a fuoco, o meglio, di accordarsi per non perdere il tempo.

 
 

Un libro, Fortissimo di Matteo Bianchi, che nasce con l’affermazione La via per Canossa è sempre la più dura, reiterata in ”C”, di Canossa: chi si volta è perduto! e che arriva alla fine a un testo erotico leggerissimo, introdotto dalla domanda Sarò in grado di trattare un senso equivalente?, per concludersi con un ma non concepivo il mio stallo. Un libro fortissimo nel suo essere tenue, pieno, innamorato non solo di una persona ma anche della propria vita e della propria consapevolezza di vivere (Ho deciso, precisamente tre anni fa, che non avrei più usato nessuno […] ma tu non sei scampata al conteggio).

Un libro che parte dalla pazzia di un uomo alla stazione che sta dentro ad un solo momento e arriva a un tuo sorriso / riflesso opaco dalle lenti, un pioppo in cortile pervaso dal sole. Intendendo quel sole come il tuo corpo, la mia forma assoluta.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
La via per Canossa è sempre la più dura,
tra nevi alte fino alle staffe
e nude rocce aspre.
Ve ne pentirete, forse,
una volta sul passo, sul passato:
fate attenzione ai crepacci,
alle sirene dei ghiacci.
 
«Perché mi guardi male?»
Non riuscivo a dire addio
nemmeno a un mozzicone
spento.
 
I fanali dell’auto davanti in coda,
l’insegna del motel a ore,
il nulla della nebbia intorno.
Fino al viale, tragitto quotidiano:
da casa mia a casa tua.
Mi fermavo sul marciapiedi
e tu scendevi piano.
Aspettavo di vederti entrare.
 
«Ti prego, non dirlo…
non dirlo».
«Ma… che cosa?
Non ho fiatato»,
 
troppo fiato appannava la veduta,
la calda stretta delle nostre colpe.
 
 
 
 
 
 
19 gennaio
 

«Federica, pronto Come stai? […] Che cos’ho? Sono nei guai: temo di essermi innamorato ancora. Sai quanto l’alto mare mi faccia, solo su una zattera di sogni, con le onde inattese e la fame nera di chi non può esserci. Sai che se non nutri vuoti di stomaco, non voleranno farfalle alla cieca, bensì squali e i loro morsi. Appena lei si allontana da me, l’appetito se ne va e neanche il freddo mi smuove: esco in felpa per la strada e c’è il gelo. Mi è indifferente, come poi lo è il resto. Pensa, qualche sera fa c’era il pesce per cena e ho inghiottito non so quante spine senza accorgermene. Perdo peso sia fuori sia dentro, perdo di continuo attenzione nei dettagli, se non i suoi. Nient’altro che lei. Mentre siamo insieme, invece, mi sento immortale, sarei capace di mettere a ferro e fuoco pure Ferrara. Scintille: sento una fiamma tra le dita, alle estremità del mio corpo, e potrei incendiare chicchessia con uno schiocco di indice e pollice. […] Bene? Ma che dici, ma scherzi? Lo sai com’è finita per Prometeo, o per Psiche, dico sul serio. Non si può sostenere un’emozione tanto forte, è fuori portata, è oltre; una volta raggiunta la compiutezza di senso, la metà assegnata, la meta del desiderio, si rivela la nostra fragilità. E non si può tornare indietro. Non puoi carpire un raggio di sole senza scottarti. […] Ma dimmi, mi preme, dovrei chiederle scusa per tutto questo sentimento?»

 
 
 
 
 
 
30 gennaio
 

Anche se dietro i finestrini non potevi vedermi, ti osservavo (già col sorriso stampato per la tua discesa) dal basso dell’auto all’alto della finestra illuminata. Infilavi il cappotto e arrotolavi la sciarpa intorno al collo, raccoglievi i capelli trafelata.

Mi piace seguirti con lo sguardo da una camera all’altra scalza e pensierosa con il plaid a scacchi sulle spalle, o prenderti ai fianchi quando meno te l’aspetti, mentre lavi i piatti e ti vanti di essere più brava di me.

 
 
 
 
 
 
29 aprile
 

Comunque sia, Euridice, ogni cosa succede sempre dentro di noi, ma c’è già chi non se ne cura, chi non riesca a notarlo. C’è chi toglie il respiro all’eternità di un momento, non riconoscendolo, e lo priva così della dignità. Comunque sia, Euridice, non svanirò in un gesto, tanto meno in un canto. Mai. Io resto e resterò persino muto, se sarà necessario. Metto sul piatto della bilancia ciò che mi è più caro, sapendo che non mi abbandonerà, ma se anche fosse, che è servito alla mia Euridice. Se Orfeo fosse uscito dal buio a mano con lei, non avrebbe avuto più motivo di cantare, ma l’avrebbe salvata dagli Inferi. A me non interessa compensare. Orfeo si è girato poiché non ci credeva abbastanza – codardo – io sì.

 
 
 
 
 
 
Affilati gli abbracci a tracolla,
sulle tracce dell’ultimo bacio
un tale si guardava conscio le spalle
del suo ego addomesticato
e pensava: «Chissà con parole scarne
cos’hai stanato, quali hai scelto
per tirare e sino a dove.
Chissà se comprendi di aver sparato:
di fatto sta che non hai usato
il richiamo, non ti sei curato
della rosa di piombo sul tuo petto.
La conseguenza del tuo strappo,
il suo pianto sconsolato,
mi ha risvegliato.
 
Chissà quanto il ricordo di te
riuscirà a reggere
quando l’avrò braccato».
 
(Un cacciatore innamorato)
 
 
 
 
 
 
La pazzia di un uomo alla stazione
sta dentro ad un solo momento:
la tua partenza.
Il cielo sul treno è un deserto
e non passa volta, bagagli al vento,
i miei occhiali non siano bagnati.
Mandare giù tutto d’un fiato
l’amaro boccone di un addio
lasciato freddo nel piatto.
 
Ritorna un tuo sorriso,
riflesso opaco dalle lenti.
 
Il pioppo in cortile è pervaso dal sole.
 
 
 
 
 
 
Insistevi che il poeta
deve tutto alla musica.
Ti ripetevo che il poeta
deve invece camminare.
Non stancarsi subito
di tornare indietro,
riattraversare la stessa porta,
reduce dalle stanze
quando scappa di casa.
 
Ti frugavo nella borsa
per fare parole della mia penna,
le mie braccia di edera
strette impotenti
alle corde del tuo violino.
Tralci di comunione e foglie
rosse sopravvissute.
 
 
 
 
 
 
Sarò in grado di trattare
un senso equivalente?

 
Era stimolante giocare a scacchi
sul tuo ventre,
il tuo corpo, la mia forma assoluta.
Vita di coppia degradata,
trattata con poca serietà:
Regina contrapposta a pedone,
Re contrapposto a…
 
ma non concepivo il mio stallo.