Continui a nasconderti
nella fiamma a pendolo
dietro la bestia a corde
nell’avemaria controvento
è nato un nome in cui sostare
quando tutto resta sulla bilancia
delle ore offese di giallo.
Ho sentito dire alla damamorte
quante bocche fisse ha il suicidio
la potenza della tua croce asfaltata d’ascia
e ogni ritorno come a una buccia arcaica
in cui torni spina a spina
a bordo delle tempie azzurre
e non ti puoi contare.
Ti ha amato veramente
il genio cieco che ti creò
che ti mangia con il cucchiaio.
Interminabile tu.
Senza Sparta
Forse ci si salva così, senza coraggio
in una piega
senza desiderare l’abisso
e il morso dell’impiccato
senza salare la vita nel petto
con l’anima miope, privi dell’ultimo atto.
Forse si può portare l’elmo
come un cappello intestato di rosso
ed esibire la propria impotenza eretta
come una resurrezione.
Senza avere come patti la culla nell’oceano
deponendo la spada in una conchiglia.
Forse senza Sparta avremmo potuto amarci
senza l’esercito in campo nella mandorla.
L’attesa è un’estrema forma di coraggio
ma a Sparta l’angelo è divaricato
e la bardatura è saldata alle ossa.
Forse a Sparta avremmo potuto amarci
in una lambda
su un fresco scudo d’erba
con l’invasione nella croce.
Hai sconfitto la mia marionetta purosangue.
Le lacrime che ho urinato
sull’orto concluso dei tuoi sensi
sono state utili.
Niente cranio
niente conchiglie
solo trame di giada
da Saturno al mio piede.
Le vigne del tuo onomastico
si fanno mirini di carne.
Non sono complici le ragnatele,
il Sud ha premuto il grilletto
a sua insaputa.
I calendari si consegnano al fuso orario
la milza ha un cappello tribale,
metodi e forme a rischio di estinzione.
I frutti sono sparsi sulla tovaglia.
Proustiana
Come un mendicante per le vie
della città cammino desiderando
un giorno della mia giovinezza.
Uno soltanto.
Come idolo distrutto impronunciabile.
Lo cerco in basso
simulacro da plasmare nel fango
nelle chiazze scure dell’asfalto, nelle
fessure del selciato
lo cerco intonato
da un silenzio oscuro.
Poter ritornare a casa.
In motorino, scampanellare
qualcuno risponde al citofono.
Trovare mia nonna in cucina
le dita scure, nodose
che preparano.
Sotto la cartina dell’India
mi distendo sul letto
e aspetto che chiamino per la cena.
Ma quella casa non è più mia
qualcuno che non conosco
fa l’amore nella mia stanza.
Le mani di mia nonna sono cenere.
Accanto al tempio di Claudio
leggo il libro d’ore stasera
nel mio studio al Colosseo.
Domani questa stanza
sarà di altri che non so
e io rimpiangerò questo giorno
ripenserò alla mia scrivania
alle letture preziose fra le mani
al fortilizio di libri intorno
Bianca adolescente, bella e imprevedibile,
che mi fa impazzire.
Oggi sarà una vecchia lettera ingiallita
dimenticata in fondo a un cassetto
un merletto tarlato
voci, fogli di destino
di un Tempo Perduto
accatastati in un armadio serrato
di cui non ho la chiave.
Rimpiangerò adesso solo perché
sarà diventato “una volta”
momenti intrecciati nella memoria
tessuti dal tempo
che amano tutto di me.
Lo voglio solo perché è
Passato.
Ma l’ora, il qui m’abbandonano
io li abbandono.
Il cannone
Solo una creatura del Gesù poteva compiere
un miracolo in trentacinque centimetri.
Dalla cassaforte di Palazzo Doria Tursi
esce il Cannone di Paganini
membrana di bosco.
Suoni posseduto dallo Spirito
quando soffia e si ritira.
Ho giurato sul tuo talento santo
quando ero bambina
suono di vigilia, cometa dura
che ancora e sempre m’insegue
si allea con le mie ferite
rovista nel mio vuoto
fra costellazioni sradicate.
Un ex voto di cera
in preghiera le dita sulle corde.
Nei suoni fragranti e limpidi
s’innalzano cattedrali gotiche
prendono forma patriarchi e diluvi universali
gli altari d’oro del grano
maturo di giugno.
Di notte suonavi la mia mollica
il mio peccato originale
fino alla frontiera
mi suonavi a esecuzione capitale
e mi rimaneva sullo stomaco
la gioia di quarzo
le mie altre vite
i tuoi caratteri abbreviati
le staffe che mettevi alle parole.
Quando volevo scrivere
alla maniera del Ghirlandaio
e il menarca del mio cuore
era un ruscello di petali di rose.
Non hai mai ricordato il mio compleanno.
Come la corda a riposo
sono cripta celeste
sempre la stessa
mortale
stesse pupille salate
senza fermate
la bestia nascosta
un’ottava sotto le ossa
e nella mano tesa del povero
offro il pane bisestile.
Non ho più porte
da attraversare
da aprire, a cui bussare.
Scelta di testi a cura di Davide Cortese
Flaminia Cruciani, poetessa già molto nota nell’ambito nazionale e internazionale per l’attenzione al mistero che sottende l’apparente linearità delle nostre vite, e che con il linguaggio riesce a svellere non di rado affondando con coraggio e con (in una certa forma) un assolutismo totalizzante (che oggi può apparire anacronistico, ma in una ricerca dalle competenze anche archeologiche sa divenire più presente del presente stesso, della letteratura s’intende – interessante sarebbe un paragone con la poetica della finalista al Premio Strega 2024 Giovanna Frene), da quelle due pietre miliari che sono stati gli editi nel 2017 e 2018 (Piano di evacuazione, Samuele Editore – Lezioni di immortalità. La vita, gli antichi e il senso dell’archeologia, Mondadori) presenta alla redazione di Laboratori Poesia cinque inediti che pur ricalcando il tracciato degli editi dichiarano un’evoluzione meno deriddiana e più proustiana (il che è allo stesso tempo citato e contraddetto dalla stessa Cruciani in altri versi, proprio perché è dalla contraddizione e dallo scontro, non di rado semantico, che nasce la visione, comprensibile a sua volta solo se se ne accetta il livello metafisico).
Questo implica un percorso che da un punto A muove verso un punto B? Assolutamente no, con Cruciani il ritorno alla pietra di ieri coincide con l’unica possibilità di presente, quand’anche questo volesse dire smantellarlo completamente fino quasi a impazzirne (si veda Piano di evacuazione che, non a caso e come giustamente il prefatore Marco Sonzogni sottolinea in prefazione, si chiude con la terribile domanda Allora che rimane? / Non rimane più niente). Ma il presente dell’uomo è nascosto e solo l’opposizione ne lacera il vello di plastica per intravederne la bestia nascosta / un’ottava sotto le ossa. Ma ancora si legga fiamma a pendolo e la bestia a corde, l’avemaria controvento, la lambda su uno scudo d’erba fino alla verticalità crudele delle lacrime urinate e della marionetta purosangue o del Sud che preme il grilletto.
Cruciani appare più carnale e dolorante (purtroppo) di quanto sia mai stata nelle pagine degli anni precedenti, dialogando direttamente (come nella migliore tradizione letteraria) con Proust, Paganini, desinando frammenti personalissimi di vita quotidiana come la casa, la nonna in cucina, il motorino, in un’inaccessibilità del passato (che pure restituisce echi, però) che diventa rimpianto, clamĕntum. Non manca quell’evocazione intrisa di potenza creativa e spirituale che pure affastella immagini, metafore (anche in questo caso interessante sarebbe un paragone con la poetica di Sonia Gentili, recentemente edita da Aragno in Un giorno di guerra). Arte e sacro si fondono in una magma vivente come la cripta celeste, i suoni fragranti e limpidi, appoggiando la voce nel conosciuto che è, paradossalmente, trascendenza.
L’Interminabile tu in questi versi diventa angelo divaricato che ha la bardatura saldata alle ossa, la sconfitta della mia marionetta purosangue trascende in frutti sparsi sulla tovaglia, i momenti intrecciati nella memoria (con il bello e caro riferimento a Bianca) diventano un abbandono dell’ora e dell’abbandono stesso, pur poi tornando come mortale che non ho più porte / da attraversare / da aprire, a cui bussare.
Ma quando si parla di Flaminia Cruciani è sempre complesso parlare di vera e propria sconfitta, di nostalgia. Aspettiamo, dunque, la pubblicazione dell’opera per capirne meglio esiti e confini, bordi e schegge. O, forse, aporie?
Alessandro Canzian
In copertina foto di Dino Ignani