Fiorire la mia morte – Luigi Oldani

 
 
Come ventagli
i bambù rincuorano
ma senza vento.
 
 
 
 
Cede la neve
il bianco all’ortensia
bianco su bianco.
 
 
 
 
Voglio amare
i ciliegi fiorire
la mia morte.
 
(Luigi Oldani, Come ventagli, Samuele editore, 2019)
 
 

Non sono certamente i criteri formali a rendere un testo affine a una cultura o a una tradizione, anzi – ritengo che l’aspetto formale sia proprio l’ultimo da curare, per quanto in una composizione come l’haiku tale accorgimento non può che essere la “quadratura del cerchio”; ritengo, prima di tutto, sia necessario interiorizzare e comprendere profondamente quello che è l’impianto estetico, simbolico, linguistico, il bagaglio e i riferimenti culturali, le modalità in cui la lingua originale si adegua a questi molteplici criteri, e il modo in cui tutte queste variabili si sono evolute nel tempo in una tradizione secolare come quella della poesia giapponese.

Basta confrontare la poesia del novecento in autori come Shigeji Tsuboi, Kikuo Takano, Kotaro Takamura, Ryuichi Tamura, e tanti altri, con molta produzione di haiku e tanka del resto del mondo – avendo avuto tale forma un incredibile successo, indubbiamente legato al fascino icastico della sua formula elegante e assoluta, sobria e impersonale, capace di molti livelli di lettura diversi. Pochi degli autori che si sono cimentati in questa forma apparentemente accessibile hanno saputo restituire le caratteristiche uniche di questo genere di componimento, capace (e penso anche ai jisei, le cd. poesie “della morte”) di riassumere l’intera esistenza in pochissime, potenti immagini. Non è però mia intenzione dilungarmi oltre sulle differenze estetiche, culturali o linguistiche, o parlare della grandezza dei versi di autori come Issa; questa premessa intende essere solo strumentale, al fine di poter affermare che Luigi Oldani è ben consapevole di tutto questo: da ogni sua parola è evidente l’immersione nella tradizione letteraria, culturale ed estetica della poesia haiku – e giapponese in generale.

Consideriamo i testi qui proposti: l’io, tanto per cominciare, è assente nei primi due testi, se non in forma di oggetto; nel primo, ad esempio, “i bambù rincuorano”, si può supporre, tra gli altri, anche un “me” – ma il dettaglio è secondario, eventuale, l’azione non è dell’io, ma del mondo in cui esso è incorporato; nel secondo haiku, l’io può essere rinvenuto solo in quanto possibile e impersonale osservatore della scena, nuovamente, che non interferisce in alcun modo: un io puramente ricettivo, disperso. Questo suggerisce una certa familiarità con il concetto di anatman (la natura illusoria dell’io), tipico della spiritualità orientale e zen in particolare.

Nel terzo testo, dove abbiamo un verso in prima persona singolare e un aggettivo come “mia”, Oldani associa l’io del testo alla “morte” e ai ciliegi: parla del sé solo per evidenziarne la provvisorietà, la transitorietà e, ciò nonostante, la serena familiarità ad uno dei principali simboli della cultura giapponese: il sakura, il principe dei fiori (un celebre proverbio recita “tra gli uomini il samurai, tra i fiori il ciliegio”), il protagonista dell’hanami, assurto a simbolo proprio perché è il primo a fiorire e il primo a svanire in un vento di dissolvenza leggero e avvolgente.

Molti altri dettagli suggeriscono affinità profonde: quel “senza vento”, ad esempio, in giapponese potrebbe essere benissimo 無風 (mu kaze, “non vento”): e quanto si potrebbe dire su quel semplice “mu”, che richiama il concetto di vuoto, il sunyata, l’assoluto potenziale in cui si inscrive ogni parola come un gesto essenziale, come nello shodo, la celebre arte della calligrafia.

Discorso analogo si potrebbe fare, poi, per il bianco del secondo testo, dal significato ben più complesso che nella nostra tradizione simbolica: bianco come vita, ma anche colore della morte (il kimono funebre è di questo colore, ad esempio), che in lingua giapponese presenta un’affinità anche sonora (shi è la morte; shiroi il bianco); dunque un testo breve che presenta suggestioni leggere, attraverso un’immagine naturale ma pacificante, per trasmettere, appunto, la naturalezza con cui ogni cosa, dal fiore all’uomo, risponda alla legge dell’impermanenza e della provvisorietà, e di come ciò ne connoti il valore estetico, la renda preziosa. Non solo questo, ma anche che la vita e la morte sono due aspetti assolutamente connaturati e non oppositivi, intrecciati in un divenire che non dovrebbe generare angoscia esistenziale, ma invitare ad accogliere il mondo per diventarne parte integrante, incorporandolo.

Ecco, ci sarebbe altro da dire, ma questa breve nota non lo consente: e se in così pochi versi Oldani è riuscito a innestare così tanti rimandi alla letteratura haiku e alla spiritualità giapponese, certamente il suo non è uno sterile esercizio di tendenza, ma un omaggio autentico e consapevole.

Mario Famularo