Fanno pozza scura i tuoi occhi – Lucia Mangili

Fanno pozza scusa i tuoi occhi - Lucia Mangili
 
 
 
 
Mio padre batte un piede a ritmo
ascolta una band agée in piazza
Rattàtattattà dice Morandi
gli guardo le braccia, più sottili.
Mia madre se la ride, e ci prende a spalla
la cicatrice si vede, ma smania
due dita di vino e dà forfait;
nei negozi dell’esistenza (r)esistono i cristalli,
la Vita stanotte è un elefante
che sa come muoversi, opulenta, forte,
infinita, cammina su trampoli
di tenerezza,
e si eleva leggera, bellissima
come in un quadro di Dalì.
 
 
 
 
 
 
Vino e poesia
 
Lo capisco
Bukowski, capisco Vallejo
e Carver, Virginia, Emily
e Holden
col passato
sulla nuca
le zampe penzoloni,
le fantasie accese
sole, allo zenit,
l’ora che scorre
da fermare:
dal fondo di un bicchiere appena vuotato
li guarda il sangue del mondo
rappreso sul cuore.
 
 
 
 
 
 
Fanno pozza scura i tuoi occhi,
mi sorprende la paura di stringere il vuoto, stringendoti:
allora respingo il tuo nero, rifiuto la tua ancora di masso,
schiaccio forte la pietà, imbocco infine uno spiraglio:
perdonami ma vivo.
 
 
 
 

In questi tre testi inediti di Lucia Mangili emergono alcune delle tematiche a lei care. Poesia ancora alla ricerca di una propria definizione, non sperimentazioni né esercizi ma passi lenti e riflessivi verso una pulizia e sintesi apprezzabili. La Mangili si muove all’interno di due coordinate evidenti: l’esterno, lo studio, la poesia letta. L’interno, il proprio corpo e la consapevolezza di essere qualcuno in un dato luogo e dato tempo.

La sensualità non di rado emerge come misura di sé. Non ostentata ma calibrata all’interno di un sistema di contrappesi che più che valutare il proprio sentire se ne chiede l’esistere.

Tra i nomi citati Vallejo che ricorda e riscontra un senso di pietas tra le righe. Quadri sintetici che vorrebbero sintonizzarsi per mezzo dell’empatia con un mondo ancora accolto seppure già sofferto.

Va bene così? Probabilmente. Età e consapevolezza portano spesso al rifiuto di un sistema umano pesante e oscuro, aggressivo, che si avvicina più a un giocoso suicidio dove chi esce dalla caverna autoimposta viene ridicolizzato.

L’Universo 25 di Calhoun del 1962, quando ancora i social media non erano nemmeno pensabili, aveva posto dei quesiti e dei timori che a cinquant’anni di distanza preoccupano ancora, e forse di più. In un mondo-prigione che sembra autoconsumarsi come cavalli felici di andare al macello, che riproduce se stesso continuamente in un arrugginimento che non s’ha da vedere, è bello leggere ancora un richiamo all’innocenza, all’empatia, alla pulizia.

Non saranno mai i buoni sentimenti a salvarci, né la bellezza nonostante gli appelli poetici. Ma la tenerezza “come in un quadro di Dalì” fa ancora respirare un poco di sollievo, nonostante abbia “il sangue del mondo / rappreso” su di esso.

E la “paura di stringere il vuoto, stringendoti” viene per un istante vinta da una pietà che, sebbene “schiacciata”, resta.

Alessandro Canzian