Estate corsara, Alessandra Corbetta (puntoacapo, 2022, nota di Marco Sonzogni)
S’intitola Estate corsara la nuova raccolta fresca di stampa di Alessandra Corbetta, edita da Puntoacapo. In essa, l’estate si rivela sin dalla dedica come estate della vita, metafora di una stagione assolata alle soglie dell’autunno, ancora fremente, colma di scambio e di dialogo, di amori, di momenti lunghi e frenetici, di luoghi aperti, cieli celesti e marine dense di vita. Ma un’estate è anche apice, cima, e quindi solitudine, transizione. È una stagione che, in quanto culmine e coronamento, ha il sapore agrodolce della malinconia e dei bilanci, della vetta impervia raggiunta che, se da un lato sa di traguardo, dall’altro, voltandosi indietro, si può sentire la morte scivolare e rivedere il periodo di vita – la giovinezza – che a questa vetta ha portato; e al contempo, però, guardando avanti non resta che una discesa ripida che non può essere ritorno circolare, ma avanzamento rettilineo, non necessariamente peggiore, seppure per forza di cose differente. Questa estate, infatti, in quanto corsara, è la risultante di incursioni e razzie, di perdite e, in quanto crisi, è altresì principio di rinascite e opportunità, per far sì che questo crollo possa abitarci e insegnarci, permettendoci di assimilarlo, di trasformarlo e infine trasformarci. E la Corbetta sembra proprio voler immortalare questo istante privilegiato di distanza da ogni cosa, questo momento di mezzo nel quale si accenna un sorriso al passato e ci si asciuga una lacrima col dorso della mano, ma dove nel frattempo si ha anche la possibilità di lanciare un unico sguardo capace di abbracciare l’orizzonte del mare, le macerie sottostanti e lo sprofondo verdeggiante della vallata.
Non è pertanto casuale la scelta strutturale di organizzare e scandire la raccolta nelle sezioni “Prima”, “Durante” e “Dopo”, né forse è un azzardo pensare a questa raccolta come fosse una rielaborazione poetica coinvolta e in prima persona di Frammenti di un discorso amoroso. Perché la relazione amorosa nelle sue fasi è il filo che collega e interroga tutta l’opera, lasciandosi attraversare dal tema sotterraneo della trasformazione della giovinezza. Tuttavia, se sin dall’epoca classica gioventù equivale a bellezza, freschezza e fugacità – e in questo si ha certamente una delle sfaccettature più tradizionali della scrittura di Alessandra Corbetta –, va invece sottolineato come l’oggetto d’amore, che pure è indubitabilmente presente, sostanziale e per nulla immaginario, si sleghi dalla concezione lacaniana di amore per il nome, privandolo appunto della possibilità di essere nominato, e relegandolo da un lato all’anonimato, e pertanto alla negazione, dall’altro rivestendolo, proprio in virtù della sua vacuità, del ruolo di regista invisibile e onnipresente, di non-nome che diviene assolutizzazione.
Un libro giallo in mano per schivare lo sguardo
di chi ha provato a incrociarti
tra treno e banchina perché leggere – pensi –
è fare stare tutto in una riga, evitare
gli strappi di chi piange. Dritto e distratto
neghi la paura di un saluto perché – vuoi convincermi –
scrivere è una briciola di non-vissuto
Estate corsara si lascia caratterizzare da un dettato intimo e calibrato, pregno di carnalità, di oggettualità, di luoghi specifici, di inquadrature su piccoli gesti quotidiani atti a materializzarsi nella lettura, a disciplinare e puntellare la spinta inversa di un parlato che, altrimenti, correrebbe il rischio di disancorarsi, in balia di un’intensità emotiva e di un’astrazione cerebrale di primordine. La scrittura oscilla, e anzi vive nell’equilibrio fra un vissuto autentico, inconsapevole, animalesco, e la capacità a posteriori di darne una lettura densa, impietosa, rigorosa. Per rendere possibile questo poetare, l’autrice sembra dover vivere simbolicamente due volte ogni cosa: la prima di slancio, di pancia, a perdifiato; e la seconda – a distanza di cicatrice – caratterizzata dall’analisi, dalla rilettura e dalla consapevolezza, nella quale prevale l’interrogativo a ritroso, il riavvolgere reiterato di un nastro che diviene dissociazione da un troppo-vissuto, come il chiedersi amaro se quel ridere degli anni addietro era un ridere davvero o, ribaltandolo, se a ridere davvero era davvero la stessa persona di ora.
Sotto questa lente anche «dire l’indicibile con convinzione», anche il più grande amore, per quanto inseguito e sognato, non può che diventare impossibilità, illusione, disincanto, un gioco di echi che parlando insieme mai si risponde. Ma se, parafrasando il Barthes dei Frammenti, l’atto della vestizione in vista di un appuntamento non è che il tentativo di rendere bello e misterioso ciò che verrà sciupato poi dal desiderio, va qui invece fatto notare come Estate corsara si mostri sì, tematicamente, come l’incarnazione dello schianto tra amore-immaginato-desiderato e amore-vissuto, ma, per contro, stilisticamente e intellettualmente parlando, ci si dona nuda e disarmata dalla stessa onestà autoriale che ne sancisce la genesi. Non ci sono pose, né pretenziosi costrutti letterari per camuffarne le crepe o per distorcerne l’efficacia estetica a discapito della credibilità. Il vibrato emotivo sembra anzi catalizzato dall’esattezza del suo contorno, dalla sua forma a misura di stasi. Qui la scrittura viene usata come esorcismo, ma forse ancor più come torcia di sé, come terapia. A tratti, proseguendo fra le pagine di questo canto del disamore, si dubita anzi che arte sia artificio, perché, per paradosso, tutto è saldamente costruito affinché il fragile sia fragile, e il dolore sincero.
Come scrive Sonzogni nella nota in quarta di copertina, quella di Alessandra Corbetta è un’estate che non perdona. E forse non perdona anzitutto se stessa. Tuttavia, se essere in vita significa necessariamente bruciare, vivere non è allora forse altro che trovare ogni volta la forza, il coraggio e la voglia di incendiarsi di nuovo – e rinascere ancora.
Dario Talarico
Estate 2006
Così il mondo stava
nel succedersi esatto degli ombrelloni blu.
Una ragazza li attraversa con le gambe lunghe
che reggono sfacciate il senso dell’estate.
Un’altra al tavolino ordina acqua e menta,
le trecce more scese sulle spalle
e su anni uguali a frasi che iniziano con forse.
Chi le guarda beve succo d’ananas con ghiaccio
e medita qualcosa da aggiungere al ricordo
di chi ha provato a essere ma poi non è mai stata
Primo piano
Passano con furia di piano in piano,
la smania di raggiungere
la camera, fare quelle cose
da grandi – anche noi, ricordi?
stavamo a vent’anni su
e giù, un’apertura continua
di porte specchi passaggi
eppure lei ha quel taglio da punk
gli occhiali storti nella foto dove
tu eri ancora tu, e il gioco
credevamo fosse facile – bloccare l’ascensore,
intrecciare le mani, bastarci
Lucca
Attendi l’adesione, il giusto
sovrapporsi delle cose, la virtù
che dalla tavola rotonda arriva fino a noi,
ci perdona e cancella
dal peccato l’intenzione.
Cercare a Lucca un’abat jour moderna
o un terrazzo dove fare colazione
era ammettere l’errore, il possibile
ritorno del superfluo: domani
l’ho detto sottovoce, ti sono stata
accanto nel riflesso
Abbandoni
La giacca – lei – più grande
di tre taglie, le gambe secche
come il bastone di un ombrello.
Un ragazzone – lui – che invece
chiede a un angolo di strada
qualche soldo salutando – augurandoci
ogni bene. Sotto il temporale
non conviene lasciare ai nemici
il capo scoperto: molto presto
a tutti loro pioverà dentro
Via delle lame
Tra il bar Jolly e i cocci di bottiglia
sotto i portici si attende la chiamata:
l’attesa è che si sciolga tutto il gelo di Donata
e che qualcuno ce la dica la fatica della pista,
il peso dell’equilibrio sopra il ghiaccio.
Non volteggia, passo dopo passo misura la distanza
dal Tabacchi alla boutique con la scritta rosa, chiede
a un passante se ha d’accendere, se lui sa
moltiplicare il nulla per il niente – se può dirle
per chi sono questi versi, se chi va via
è più vero di chi resta