Era la parola la tenerezza sotto i lampioni – Umberto Piersanti

Umberto Piersanti 1

foto di Dino Ignani

 
 
All’origine
 
Colui che era presso la Croce
generò questo male
poi vennero parole stampate
del mio tempo
medioevo prossimo venturo
e fu l’assurdo.
 
Il sudore era
sulla linea della fronte
la notte atroce
spesa nei soprassalti
l’amica mi trascinò
stupito
rotaie infuocate e case bianche
vera la diagnosi
spietata del medico dei pazzi
«volgarmente detta malattia del dubbio».
 
L’Assurdo era nel ritorno
e nelle cose, nei volti
non allontanò l’odore acuto
di cloroformio e d’altro
dai cessi della clinica serrata
né i gesti, le parole
i farmaci del primario, i medici
gli infermieri
non l’affetto sconvolto, impaurito
di mia madre
e gli altri
che vennero tra il verde
della mia stanza tragica
 
maggio erano papaveri e lupini
dalla mia finestra
era la vita irrimediabilmente altra
di una semplicità perfetta
ora solamente riconosciuta
e spaventosamente persa
 
L’amore percepito
in totale impotenza
in smisurata nostalgia
una ragazza del tempo differente
strappati i papaveri dei campi
venne e li depose nella stanza.
 
(luglio 1975)
 
 
 
 
 
 
A Bologna nei giorni dopo il gelo
 
Azzurre sono le ore
nell’Appenino del tempo differente
in questi luoghi diversi
d’Abruzzo perduto nell’arcaico
e ritentare le orme favolose
dell’epoca che tu
prima del male
 
azzurri erano i giorni
primi dopo il gelo
tra i vetri della clinica
a Bologna.
 
Era il mattino
l’assemblea inutile dei malati
quasi niente ci separava
dagli uccelli dei prati pettinati
 
primavera atroce
che trascinavi ancora
nei prati miseri del piazzale
i giorni interminabili della sofferenza.
 
Le mense lunghe, i volti
presi dall’assurdo
c’era un compagno difficile
che piangeva forte e non mangiava.
 
M’ero abituato alla flebo
che non entrava
non era questo il guaio
ma la sua ridicola impotenza.
 
Io non voglio descrivere
i compagni
per quanti fosse atroce
non lo conosco
ma s’era in luogo grigio
della sofferenza.
 
Mia madre
era vicina al letto
dove mi serravo
fin dalle ore prime
del pomeriggio, la difesa sola
che mi restava
io speravo nel sonno e nella sera.
 
Alcune ragazze
facevano lì la loro pratica
una
bionda, dopo aver
parlato mi baciò quasi improvvisa
nella fronte.
 
Primavera azzurra
di Bologna
per me eri solo
i giorni dell’assurdo
il tempo atroce
e disperato il tentativo
d’essere uomo.
 
(settembre 1975)
 
 
 
 
 
 
Le margherite gialle dell’autunno
 
Le margherite gialle
dell’autunno
dai treni giù per i greti
nei giorni più chiari
di settembre
da Cividale
alle piane intiepidite
ormai di Lombardia
era la fiamma chiara
d’una possibile riscossa
il saluto lungo
nel viaggio ritentato
il laccio sottile
d’aria di colori sul trapasso
per un tempo
oltre lo stupore
fugace
di fiori e degli azzurri
ancora sanguinosamente
differente.
 
C’erano sempre queste
margherite
sotto i torrioni
verso i mattoni vecchi
della casa isolata di Mengacci
e ancora più tenaci per la nebbia
nelle campagne
d’Emilia
e della Romagna.
 
L’assurdo non ha
intaccato i luoghi
mentre sbatteva me
negli edifici serrati
e nei piazzali precisi
dove con i compagni non previsti
s’era stroncati dalla sofferenza.
 
Da tempo immemorabile
conosco l’indifferenza
al male
non dico della natura
nei ritmi e nelle vicende
qualcuno già lo ha scritto
e definitivamente
ma questo è anche
nei segni
nelle presenze
a me sacre
del tempo differente.
 
Non ho rivisto le margherite
nei giorni
quando più atroce
era l’urlo della mente
fiorivano ugualmente
oltre la porta serrata
della pazzia
riservate impassibili
ad ogni altro.
 
Ma lo prendo
ugualmente come segno
teso nella Paura
che m’avviluppa
questo giallo bagnato dall’autunno
segno di forza mite
della tiepida gioia
della vita.
 
(ottobre 1975)
 
 
 
 
 
 
La parola
 
Un giorno era la parola
per la lotta nei banchi
dell’assemblea e sulle piazze
per gli incontri lunghi con gli amici
così come nei treni, negli incontri
brevi dei caffè, delle strade e
dei ristoranti, era la parola
la tenerezza sotto i lampioni
tenace per i giochi splendidi del sesso
e dell’amore, sgombra
nei risvegli morbidi dopo il coito
in essa era riposta la mia forza.
 
Ora il mio male viene
dalla parola, un mondo dove non sai
quale delle parole innesti
feroce il meccanismo e non è
forma ormai ma segno
il più pauroso della mia follia.
 
 
 
 

Oggi Umberto Piersanti compie 80 anni. Amico, poeta tra i più significativi e di fatto ormai storicizzato nella letteratura del ‘900 italiana, autore che sta già segnando il nuovo millennio.

Di lui mi sono occupato più volte (Nel folto dei sentieri, Volgarmente detta la malattia del dubbio, Rêverie) così come più volte qui su Laboratori Poesia lo abbiamo tradotto e citato (fra tutti la Poesia a confronto: i figli, curata da Fabrizio Bregoli). Oggi voglio omaggiarlo riprendendo un’opera pubblicata nell’anno della mia nascita, ricorrenza che trovo particolarmente simbolica anche in virtù del particolare rapporto d’affetto e stima che mi lega a lui.

L’urlo della mente (Vallecchi 1977) è un’opera dolorosissima eppure vitale. Umberto stesso di questo libro dirà, anni dopo, “il mio libro più sincero, il più immediato e il più diretto, ma anche decisamente il più brutto. L’oscurità che copre la mente intralcia anche il dettato”.

Ma la poesia non deve essere necessariamente bella. Non deve incontrare e accogliere il lettore o l’uomo e nemmeno acconsentire ad esso. Non deve dare pugni nello stomaco se sono semplici forme di stile, pose. La poesia deve dire quanto si è imparato nella vita. Deve parlare del fango, della malattia del dubbio, senza quegli eccessivi costrutti che dicono la superficie ma non salvano.

Umberto Piersanti, in attesa della recensione al suo recentissimo Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo 2020), mi da modo di fare il punto della situazione non dalla vita alla poesia ma, al contrario, dalla poesia alla vita.

Faccio quindi una carrellata dei suoi titoli in versi, non tutti ma abbastanza per comprenderne il tracciato:

 

  • La breve stagione (Quaderni di Ad Libitum 1967)
  • Il tempo differente (Sciascia 1974)
  • L’urlo della mente (Vallecchi 1977)
  • Passaggio di sequenza (Cappelli 1986)
  • I luoghi persi (Einaudi 1994)
  • Nel tempo che precede (Einaudi 2002)
  • L’albero delle nebbie (Einaudi 2008)
  • Tra alberi e vicende (Archinto 2009)
  • Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos 2015)
  • Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo 2020)

 

Senza dimenticare la sua straordinaria partecipazione a Dal sottovuoto – Poesie assetate d’aria (Samuele Editore 2020, collana Scilla, curatela e prefazione di Matteo Bianchi).

Un percorso che interroga il tempo umano, ne affronta le nebbie, la perdita, la resilienza che logora, l’accettazione delle vicende. Un amore che appare nell’ultimo titolo alle soglie degli 80 anni e che sigla, sigilla e dichiara il significato della propria presenza nel mondo delle cose e degli uomini.

Leggiamo in quest’ultimo infatti alcuni versi:

 
[…] siamo scesi un giorno
nei greppi folti,
abbiamo colto more
tra gli spini,
ora tu stai rinchiuso
nelle stanze
e il mio ginocchio che si piega
e cede
a quei campi amati
d’un amore ostinato,
sbarra l’entrata

 
aspetto i favagelli
del febbraio,
tiepidi contro il gelo
sbucare fuori

 
(febbraio 2017)
 
 

Lo stesso gelo, indietro negli anni:

 
[…] azzurri erano i giorni
primi dopo il gelo
tra i vetri della clinica
a Bologna.

 
Era il mattino
l’assemblea inutile dei malati
quasi niente ci separava
dagli uccelli dei prati pettinati

[…]  
(settembre 1975)
 
 

Umberto Piersanti ci insegna che l’amore non è una forma di pacificazione con sé stessi, o con l’altro, ma di grazia dolorosa e consapevole. Che raggiunge un livello nebuloso di serenità densa di cammino, di canto, di natura e di esperienza.

Attimi fuori tempo, imperterriti, feroci nella loro vitalità e dolorosi nella loro dolcezza. Questa è la vita che resta come valore da respirare nel gelo che va accettato, nel verso che diventa carne e sangue da flagrare al sole di una natura inevitabile. Come inevitabile è l’uomo.

 

Buon compleanno, Umberto Piersanti.

Alessandro Canzian