E sussurra qualcosa alle mosche – Ivano Ferrari


 
 
 
 
Omicidi instancabili
tra incenso e carogne barattate
con l’attesa corruzione dei sogni,
mentre evaporo (sgrassaggio)
cedo le parole:
dimostratemi la mia morte
che conosca ciò per cui vivete.
 
 
 
 
 
 
È fuggito un toro nero
erra sul cavalcavia
impaurendo il traffico,
lo rincorriamo
impugnando coltelli
bastoni elettrici e birre
corre si ferma torna
arrivano i carabinieri coi mitra,
ora è steso su un velo d’erba
e sussurra qualcosa alle mosche.
 
 
 
 
 
 
Un lungo, insopportabile ritardo.
Poi il rumore dei camion
le urla degli autisti
le ultime preghiere delle bestie.
Ricomincia la vita appaiono le forche
le pistole, le falze, i coltelli.
 
Da Macello (Einaudi, 2004)
 
 

Quando muore un poeta muore un pezzo di storia. Poeta poi… termine tanto anelato quanto abusato come fregio e sfregio della cultura. Perché a essere poeti ci si mette poco (mi si perdoni il tono colloquiale): basta saper parlare più che scrivere, basta andare a capo e focalizzarsi su qualche sentimento, emozione, o sul provocare un effetto nel presunto lettore. Non serve, come in musica, saper suonare, o come nella fotografia avere le basi. Ti hanno insegnato a due anni a parlare, ed ecco hai già tutto. Per i più sofisticati il termine poeta significa convincere gli altri che lo si è. Continuando a pubblicare, a cercare recensioni, consensi. Appari in 26 blog, in un cartaceo, ecco non puoi dire di non essere poeta. Talvolta, peccando di mancanza d’autocritica, piccandosi se gli altri non ti riconoscono il valore delle lettere.

Essere poeta oggi è quel mito impalpabile che non ti riconosce ricchezza, stabilità, ma lode. Nemmeno fama, che è cosa paradossalmente comprensibile quando aspira ad essere duratura, o almeno più duratura dell’autore stesso. Lode, semplice e banale lode. Che a tutti gli effetti serve più all’autore che all’opera. Tanto da arrivare alla contraddizione che in quest’epoca ogni buon Editore (buon Editore, me lo si permetta, non chi pubblica ogni 10 giorni 26 copie e poi nevermore) conosce: il libro è un feticcio inutile, una proiezione dell’ego dell’autore che lo ha fatto diventare nulla più di un biglietto da visita da spacciare.

Tutti rincorrono una ‘nsegna che dovrebbe essere caratterizzante, una sorta di onorificienza, che al contempo non si nega a nessuna persona quasi da non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Volendo questo lo si può comprendere, Zygmunt ci ha mostrato che siamo ancora una folla sul London Bridge.

Poi ci sono i poeti come Ivano Ferrari. Poche le edizioni (A forma d’errore, Forum, 1986 – La franca sostanza del degrado, Einaudi, 1999 – Macello, Einaudi, 2004 – Rosso epistassi, Effigie, 2008 – La morte moglie, Einaudi, 2013). Pochissime apparizioni in pubblico. Eppure ne cerchiamo i libri (si presti attenzione: ne cerchiamo i libri, non l’autore). Eppure lo chiamiamo poeta.

Ieri è venuto a mancare e molti già lo chiamano maestro (come tra l’altro è successo per Benzoni quando, da semisconosciuto, è stato pubblicato da Marcos Y Marcos, e tutti a millantarne la conoscenza). Perché funziona sempre così: bisogna salire sul carro del vincitore del momento.

Ci saranno altri spazi per approfondire la poesia di Ferrari. In questo solo un accenno a quel capolavoro crudo, privo di invenzione, eppure assolutamente aderente a una realtà di cui è metafora: Macello. Testi di pochissimi versi ben centrati dove non c’è spazio per voli pindarici (Ferrari lavorava veramente in un macello), ma c’è la sintesi di un microcosmo che già dice tutto anche delle nostre vite. E di quello che siamo nelle nostre vite.

Nessuna indulgenza, nessuna titubanza nemmeno di fronte al vitello che respira ancora perché il colpo non ha sfondato il cranio. Solo un’avvertenza: evitare in modo particolare che il bestiame vivo / si incontri con le carni macellate. E una richiesta: dimostratemi la mia morte / che conosca ciò per cui vivete.

E poi, e poi, come non chiedersi se non siamo quel toro nero fuggito sul cavalcavia che dopo l’arrivo dei carabinieri col mitra si ritrova steso su un velo d’erba / e sussurra qualcosa alle mosche?

In una puntuale e articolata analisi della poesia di Ferrari su un blog di Repubblica, nel 2016 (QUI), Mary Barbara Tolusso parlava di mancanza di pietà che spesso è un codice che non viene perdonato alla poesia, parlava di gente comune, dove non si esclude che chi ammazza non sia abitato dalla capacità di amare, e soprattutto di sofferenza animale che diviene quasi il naturale rimando alla rovina umana, quella di una specie brutale, la cui violenza detterà la sua stessa fine.

O, come dice Ferrari: un lungo, insopportabile ritardo. / Poi il rumore dei camion / le urla degli autisti / le ultime preghiere delle bestie.

Alessandro Canzian