E scovi orfano me – Marco Pelliccioli

E scovi orfano me – Marco Pelliccioli

 
 
 
 
Non solo la morte, sai, mi spaventa
ma questo eterno, imperante presente
che fagocita i padri, le radici, la storia
con un paio di clic
e lascia me padre, il figlio nel ventre di lei
orfani, soli…
Cocci, detriti, vesti, fruscii,
la terra spaccata:
“Chi siamo?”
mi chiedi ora tu…
 
 
 
 
 
 
L’orfano
 
Anche se ti nascondi, luna,
dietro la polvere, il manto
di cupole e binari, tu la conosci
la scomparsa via Perosa
la rauca solitudine delle orfane operaie
all’alba in filanda, di notte ai magazzini:
le cerate appiccicate come coperte
i secchi, d’orina e pioggia colmi.
E scovi orfano me, luna d’estate in ombra,
disperso tra detriti, cocci di memoria…
…nel casolare abbandonato
l’Angiolina, i figli: Wolly tredici anni,
Cristina una bambina, Nino al campo santo…
 
 
 
 
 
 
La tua domanda
 
Ora che i cocci hanno spogliato le pareti
aperto infiniti cerchi sul corso della Mörla,
ora che le voci dei morti, quelle dei vivi,
hanno tentato la loro comunione,
le vesti, i tram, comete, scafi,
il loro nome,
straripa per le vie la piena della Mörla
inonda case, tetti, sottoscala:
prima che il sole asciughi
porgi alla foschia umida sui prati
la tua domanda…
 
 
(Marco Pelliccioli, L’orfano, Lietocolle – Pordenonelegge, 2016)
 
 
 
 

In questi testi di Marco Pelliccioli emerge una poesia di severa povertà, seppur pacata e raziocinante, che si nutre di una profonda dinamica tra attesa e silenzio, in cui il movimento tematico e rappresentativo dell’intero lavoro è quel sentimento di assenza la cui portata esistenziale intride sia il verso che, conseguentemente, l’opera.

Il concetto di “orfanezza” in Pelliccioli non solo investe il singolo inteso come io poetante, ma esonda dai limiti soggettivi ed investe la fitta pletora di agenti che si dispongono a sfondo del palcoscenico poetico, sagomando una scenografia dell’esizio in cui non già l’essere orfani destinati al non-tempo ed alla non-vita è l’elemento basilare, quanto più si consegnano come soggetti sofferenti, immersi nella degradazione cosmica e complessiva della realtà.

Orfanità che, per altro, macchia il vivente e lo consegna all’imperfezione della solitudine auto-centrica, informando un nodo antropologico di autenticità globale che si concreta in una coscienza perforata dall’orrore dell’eternità del presente, e quindi dall’impossibilità di poter recuperare un referente storico come approccio ontologico all’esistenza.

L’essere orfano si fa così e principio della parola poetica, e destinazione dello scenario esistenziale che tutto si dà nell’afflato poetico nell’autore: l’«orfano me» agisce ed esiste nel contesto semantico della poesia rivestendo il luogo di un “noi” che, alla seconda lettura, è piuttosto da intendersi come un “noi tutti” che trova legittimazione nei versi come eredità che si tramanda nella solitudine di uomo in uomo, ininterrottamente (“e lascia me padre, il figlio nel ventre di lei / orfani, soli…”).

In conformità dell’elevatezza zenitale da cui lo sguardo del lettore si disloca, in questi componimenti l’estetica del paesaggio urbano si manifesta come anti-cosmetica, e vergata dal costante presagio della perdita e della dispersione che questi conservano a cui fa il verso solo al sentimento languido ed umanissimo della condizione melanconica dell’uomo che, sofferente, le abita, seppur “disperso tra i detriti” ed i “cocci di memoria”.

In questo gorgo di smantellamento, che non solo investe gli elementi materiali ma trascina nel disfacimento anche l’immateriale, il risultato della rovina si manifesta come abbandono ed incuria che investe ogni rapporto sinestetico e concreto che intercorre tra umanità e realtà, e per questo il risultato non può che essere sotteso tra “cocci, detriti, vesti, fruscii”, manti “di cupole e binari”.

Il macrocontesto in cui ogni azione umana si compie, nel dettato si computa come risultato di una catastrofe che sfugge sia al controllo che alla capacità di raziocinio, ed il prodotto del logoramento rimane nella miserabilità ed è frutto dell’abbandono più cosmico, nonché iconografia dello squallore a cui fa contraltare la desolazione tutta umana, perché risultato della più complesso detrimento.

Così, dove il tentativo (presumibilmente non riuscito) della comunione tra le voci dei vivi e quelle dei morti fallisce, all’essere (rectius, al quesito che si rivolge all’essere, quel “Chi siamo?” che investe la legittimità non già della vita quanto più della poiesis, se non anche della parola) rispondono la desolante voce del luogo del negativo, e l’orfano che squaderna dalla sfera endo-familiare, e si consegna come erede nell’assenza tout court.

Carlo Ragliani