Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula
Tutto è pieno di dèi, di vita che pullula,
Oppure: non c’è un bel niente,
ma un niente che pullula di sogni,
di storie. Oppure: non c’è un bel niente,
e va bene così.
Cogli il frutto che matura, dicono in tanti,
dopo che lo disse un poeta sublime.
Oppure no, lascia che marcisca sul ramo,
con la sua buccia avida di sole.
È molta, troppa, la materia del contendere,
e neanche se fossi Aristotele, potresti venirne a capo.
Il tempo, questo sovrano senza regno,
che getta la sua moneta a ogni bivio,
ne sa meno di me e di te, che ci guardiamo.
Non credere a chi crede troppo,
e neanche a chi non crede, sii
come la luce di questa baia, dove fa notte,
e basta.
Qualcosa che sogna
C’è una gioia che non si vede
eppure è lì, che sfolgora, ai margini di una foto
o di una strada,
dove qualcuno eternamente sosta
e piange il suo tempo
E c’è un’acqua che scorre
nel ventre della terra, e gorgoglia
s’intoppa, freme
prima di risalire al bene della luce:
era scura
e ora brilla, come tanti fuochi
E c’è un fruscìo, coperto
dai mille gemiti della città
che si perdono in una tazza di sonno
e una fiamma quieta, lunga
che non si spegne
C’è una tavola
e del pane, e del vino
e un ospite che dorme,
forse sogna:
se lo vedi, non chiamarlo
è solo un bimbo che gioca,
e non sa di sognare
Il suono del mondo
Vi sento
qui, ora, nell’impeto
della mente che ricorda,
risale
un argine di boschi e di padri, sfocia
nel suo delta di tempo, immane,
è
come un vivere acquattato,
che affiora, all’improvviso, sulle dita
che toccano un principio, uno,
qualunque, denso, fermentante –
e dentro
il vuoto,
e in quel vuoto
il suono
del mondo.
La materia del contendere, Giancarlo Pontiggia (Garzanti, 2025)
È un poeta profondo, cordiale e lirico, talvolta gnomico, taciturno e perennemente in avanscoperta Giancarlo Pontiggia, come i versi della nuova silloge qui in esame lasciano trasparire. La sua è una profondità che richiama quel tempo felice e fecondo, seppur non avaro di contrasti e talvolta furiosi scontri culturali, che nella seconda metà del Novecento hanno permesso di scrivere alcune delle pagine indelebili di questo genere. Un esempio di quel mondo è Giorgio Caproni, forse il più metafisico degli autori in versi del secolo passato: quella sua metafora del poeta-minatore che emerge dalle viscere dell’io per recarvi poche, ma preziose pepite è a nostro giudizio richiamato, su altro e più universale versante, dallo stesso Pontiggia nella seconda composizione che sopra abbiamo selezionato: uno degli elementi naturali che sovente ricorrono nella produzione dell’intellettuale milanese, l’acqua, sgorga, risale in superficie e qui cosa trova? “Il bene della luce”, il chiarore che prima fende e quindi annulla il buio, come una forma di virtù, un sigillo di bellezza, una pepita dal valore inestimabile per scansare le tenebre, la non-conoscenza, l’abisso. Ecco la profondità, non solo letterale o figurata, bensì reale, concreta. Pontiggia non ha timore di calarsi dentro di sé, dentro l’esperienza umana, la sua come quella di un qualunque altro uomo, per riportare in visione l’invisibile del nostro tempo, che è poi il compito precipuo della poesia, quando essa è vera, quando essa è valida. Il richiamo ai miti fondanti, ai filosofi greci, alla sapienza eternata è un’altra costante che rinveniamo nelle pubblicazioni apparse nel corso degli anni e segnatamente in quest’ultima, gemma che contiene invero anche un testo risalente al 1993 e che riluce per il proliferare di pensieri, scaturigine di continue immagini. Il tempo, quel “sovrano senza regno” che ci illude e ci sfianca, ci dona e ci toglie, va forse semplicemente ignorato per non farci sopraffare. Elementi materiali e immateriali acquisiscono un loro solido status e si completano a vicenda in una poesia nella quale diventano complementari, tanto che gli uni reggono gli altri e viceversa. Può così accadere di cogliere il “suono del mondo”, la materia primigenia di cui siamo costituiti e che ci comprende fino a riuscire a toccarla, sentirla, farci abitare. Il silenzio, che è condizione precipua, brodo primordiale della poesia, emerge nel suo più fecondo impeto in questa raccolta di versi, “in ascolto” della storia che si muove, delle origini che si tramutano in materia viva, di un presente che scivola perennemente in avanti e indietro senza solidi punti di riferimento. In Pontiggia il lessico è ricercato, elegante, forbito senza affettazione, a rendere la scrittura caleidoscopica, ricca di rimandi, di interrogativi affioranti dal magma della mente, di sfumature che sono lievito del dire, di suggestioni che ora appaiono chiare ora si nutrono di ombre e pertanto necessitano di essere còlte in controluce. Lo percepiamo, ad esempio, dall’explicit sempre della seconda composizione dove si combinano gioco e sogno, due situazioni che sono immediatamente ricollegabili alla figura di un bambino, qui osservato come un “ospite” perché l’adulto non dà più alcun risalto a queste due azioni, ignorando la prima e svalutando di significato la seconda per far tacere “il bisbiglio che si perde dopo ogni infanzia”. E per riportarci all’espressione che dà il titolo all’intero componimento è davvero complesso e arduo percepire il senso di un’esistenza, il valore delle cose che dal nulla derivano, nel lutulento incedere della storia, nel tutto e nulla che ci pervade, quando popoli e regni si consolidano e spariscono gli uni dopo gli altri e il qui ed ora è sempre in bilico, tra cadute e risalite. È una poesia di carne e di spirito, screziata e ricca di antonimi, affrancata dai neostilemi moderni e che sa cogliere in tutta la sua forza, potenza ed originalità, il meglio di un’epoca dalla quale attingere nuove espressività ed epifanie di sé.
Federico Migliorati
In copertina Giancarlo Pontiggia in uno scatto a Pagine al Centro, Ferrara gennaio 2025