Dove sono gli anni, Gian Mario Villalta (Garzanti, 2022).
Vivere accade sempre due volte. Nel momento in cui si vive, momento spesso (se non quasi sempre) viziato da un’inconsapevolezza, un’inesperienza o anche solo da un’emotività che vira leggermente, ma sostanzialmente, il focus dell’interpretazione, e nel momento in cui lo si ricorda rivivendolo nella propria memoria.
La presunta verità dei fatti in effetti non esiste, e non ha ragione d’essere. Ciò che è stato non è più se non nella narrazione che si fa. Non esiste, salvo la capacità della parola di trattenerne stralci. Eppure è stato, un qualcosa è stato ed è l’unica certezza che ci rimane. Oltre al fatto che noi deriviamo da quel qualcosa che è stato.
Dove sono gli anni di Gian Mario Villalta nasce da questa consapevolezza che è misura. L’io narrante diventa un tu (per quanto si possa parla di narrazione in poesia, forse sarebbe più adeguato parlare di spostamento di piani, di esistenze) che è altro, che si incastona in tempi e luoghi che si autonarrano.
In alcune edizioni recenti di poesia capita infatti di chiudere il libro chiedendosi il quid dello stesso. Senza trovarlo. Un poeta oggi si trova di fronte al bivio della rappresentazione di una realtà che può prendere per come è, smontare, ricostruire, tentare di risolvere, oppure che può raccontare trasmettendo il come si sta nella realtà. In quest’ultima opzione purtroppo molti libri degli ultimi anni, dove l’ingombro del sentire dell’io soffoca la realtà raccontata in versi, la sua validità.
Gian Mario Villalta in quest’ultima sua opera traccia una terza via che include un io che si rapporta alla propria vita illuminando non il sé ma il rapporto stesso, quella misura che è distanza e riflessione. Emerge non di rado la felicità (dove c’è stato e c’è posto nei secoli / per la speranza, l’orrore e la felicità […] è il dolore degli uomini – volevi scrivere – / e fatto proprio di quello (speranza, orrore, felicità) / che ci confonde e attraversa […] ti sei addormentato chiedendoti / se era proprio quella la felicità […] Fantastica umanità: agli infelici non è negato il piacere; a chi ha un dolore non è negata la felicità […] Succede che mi imponi felicità, / nella bella stagione, e chiedo / perché), ma anche infelicità, male, dolore (spartito un fuoco senza fine / da un’infelicità buona, / colma d’aspettative […] né sapere perché fa male, quando viene la gioia / non sai da dove […] chi inventa la voce che fa male, da dove? […] che eterno / è il dolore degli uomini – volevi scrivere […] il corpo dimentica / tutto il dolore che smette / di far male ora).
A una predominanza netta di male e dolore, vissuti da testimone, Villalta oppone una parola che segna, che accetta quel che la vita per sua definizione è e che, nel rapporto con l’alterità dell’io, diventa ancor più manifesto e, in qualche modo, addirittura sensato.
Questo tu nella prima sezione “Dove sono gli anni” si svolge in quindici “movimenti o stazioni” (come viene indicato nelle note) che a loro volta vengono composte da cinque componimenti più uno, separato dai precedenti dal simbolo di una spirale.
La spirale illustra la distanza dall’origine in un’avvio di vertigine sublime all’occhio, rispettando il più ferreo sviluppo geometrico. Però l’origine geometrica non è l’inizio della linea che traccia il disegno spiraliforme. [dalle note]
A lato di questa accortezza grafica emerge, nel sesto testo, una continua domanda reiterata e che evolve, e che ha come minimo comun denominatore l’uso della lingua friulana. Situ ti? è infatti la domanda che ricorre e che fa intuire una sottotraccia ben precisa:
Situ ti? (in “Dove sono gli anni”)
Situ ti? (in “Sono andati via”)
Tien (in “Luce bianca dell’Est”)
Situ ti? (in Corpo sognà”)
Chi che ti si? (in “Credi davvero”)
Chi che ti si? (in “Per la cronaca”)
Te sé ti (in “Dove il desiderio ti aveva guardato”)
Prima ti. Prima i morti (in “La primavera del 1995”)
No se finisse (in “Scrivere tutto”)
Situ ti? (in “Devi cambiare la tua vita”)
Un cielo / ti prego, dove mi / non io, ma le mani, mi / il respiro (in “album Case/giacenze”)
Ti ‘ndà / mi restà (in “Mario”)
ti, tu ancora (in “La primavera del 2020”)
l’è vose (in “L’amore del tempo”)
quello che è sempre / stato tuo, prendilo (in “Ancora?”)
La continua domanda Situ ti? (Sei tu?) che si declina in Chi che ti si? (Chi sei) tocca uno degli apici più accorati nel testo dedicato a Mario Benedetti, scomparso per Covid nel 2020: Ti ‘ndà / mi restà (Tu sei andato / io sono rimasto) a rimarcare la distanza che il tempo che scorre produce.
Oltrepassando l’orrore di Minmerno in relazione alla vita che passa (Ti spezza un morbo e ti consuma: Zeus / a nessuno ha evitato l’orrore, Minmerno) Villalta trova nella Vose una possibilità di azione che è appartenenza. Ma a che cosa?
Un altro testo particolarmente emblematico del libro riporta:
«Cosa c’entra l’orrore con la speranza?» ti ha detto
lei risentita, negando un sentire che non accetta,
capito male l’appunto
gettato di fretta: che eterno
è il dolore degli uomini – volevi scrivere –
e fatto proprio di quello (speranza, orrore, felicità)
che ci confonde e attraversa.
La lei risentita è la figlia, quella stessa figlia che in Telepatia (Lietocolle-Pordenonelegge, 2016):
Mia figlia lo dice, senza pudore,
senza paura che qualcuno le invidi
la felicità, senza pietà per suo padre
che la stringe in silenzio e se dice “Anch’io”
poi deve correggere “in questo momento”.
Lo scarto della posizione, che è la medesima ma al contempo differente, è proprio nella terza via a cui ci si appellava all’inizio di questo articolo. Nella misura della vita che attraverso la parola comprende, trova un senso (il che non vuol dire però che tale senso sia piacevole o facilmente accettabile), un’appartenenza.
Oltre alla figlia in Dove sono gli anni (cosa consueta per l’autore) appaiono altre figure come Mario Benedetti a cui è dedicato un “movimento o stazione”, Zanzotto, il fratello, i genitori.
Ancora la maglia a righe, il fosso dell’acqua stagna, chi grida
che è morto tuo fratello se ancora non era nato,
se i salci lo sapevano già
in quel venir meno
del respiro sui rami al solstizio,
nella luce piena, quando era troppo
il cielo, il sorriso delle finestre, i gladioli
e le portulache, dovevi capirlo perché tremavi.
La seconda sezione del libro, dal titolo “La solitudine della specie dominante”, tratta sempre del senso di appartenenza ma allargandolo al pianeta, alla natura. Perché se siamo in un dato tempo emergendo da altri tempi e da altri noi, necessariamente siamo anche in un dato luogo che ci accoglie e che ci minaccia, minacciandolo noi stessi.
Già nella precedente sezione si era trattato di attività umane legate alla società in “Per la cronaca”, dove in nota l’autore avverte:
C’è un breve periodo, tra fine anni Settanta e primi Ottanta, che resta un punto di cecità per chi come me aveva vent’anni e frequentava l’università di Bologna e gli amici universitari a Padova, nell’ultima epoca nella quale la parola rivoluzione si legava in Europa alla legittimizzazione della violenza. Resta ancora inafferrabile, tra cronaca e storia, quanto è accaduto e quanto si credeva sarebbe potuto accadere. Resta soprattutto lo smarrimento di chi si era trovato a vivere qualcosa che poi la memoria – tra il prima e il dopo – non avrebbe potuto riconoscere. [dalle note]
Se in quel testo l’azione umana era legata alla società, in “La solitudine della specie dominante” Villalta racconta della vita che esplode dal disciogliersi / dei ghiacchi, dell’Ursus maritimus, l’orso polare alla deriva su uno spezzone di ghiaccio.
L’interlocutore inizialmente è un ibisco che traccia il nascere (Nascere è animale, e umano con la memoria / e la parola diventare quell’io che vuole sapere / perché […] Nascere è metamorfosi), il sentire e il sapere (tutto, è passato, sei / passato, e pieno di vita, adesso, nelle radici il buio / il freddo, tu lo senti / il freddo? […] che cosa sai tu di te, e di tutto / che cosa so io di tutto e di me?).
Fa seguito il maritimus, l’orso polare che nel suo essere perso misura lo smarrimento umano (il mare ogni dove / maritimus, tu non sai / impazzire […] non come noi, maritimus, noi che – generazione / dopo generazione – impariamo a vivere come / impazzivano gli avi). L’orso polare assume il male della terra, un male ecologico di stravolgimenti prodotti dall’uomo, a cui Villalta senza mezzi termini chiede scusa, arrivando a usare una formula provocatoriamente religiosa: orso polare che assumi il male della terra, / donaci cura.
Provocazione o consapevolezza della natura, riconoscimento che siamo parte di un ecosistema che ci accoglie come noi vorremmo ci accogliesse Dio. E che pure distruggiamo. Chiude infatti una “stanza” che torna a trattare della società umana, composta da un biologico disinfestatore e da bambini che incendiano la terra / per conquistarla nel videogioco.
Ma la natura ascolta in tutte le lingue e scrive l’infinitudine della lode / e il grido che allarma, nonostante oscura cresce l’assidua contesa, / se pur pretende, / la mente umana non lo comprende.
Il testo conclusivo infine risponde al zanzottiano Dirti “natura” (Sovrimpressioni, Mondadori, 2001) accentuando la distanza tra l’uomo e la natura, sottolineando (con una chiusa che ricalca il precedente tono religioso) che siamo all’ultima chiamata.
Che grande fu
poterti chiamare Natura –
ultima, ultime letture
in chiave di natura,
su ciò che fu detto natura
e di cui sparì il nome
natura che poté aver nome e nomi
che fu folla di nomi in un sol nome
che non era nome
Al labbro vieni mia ultima, sfinita goccia di
possibilità di
dirti natura –
non hai promesso né ingannato, perché
mai fu natura –
mai fu – ma vieni
gocciola o lacrima scaturisci
dal labbro-natura
tu pura impura
pertinenza dis-pertinenza
di nomenclatura
ardente e vana
spenta e sacramentana
tu sbagliata lettura
ora travolta in visura di loschi affari
fatta da bulbi oculari
incendiati
dal re di denari
Andrea Zanzotto
Un’altra ancora ultima
chiamata, ultimi appelli ancora
ripetuti ritentati ripersi
con voce decidua, voce limite, scritta/
stretta alla gola della terra:
SOLITUDINE DELLA SPECIE DOMINANTE
…
chiama, voce estrema, chiama
tra agglomerati di coscienza
miti ai consumi, ma in moltitudini
reciprocamente aggressive
affamate di stragi
specie dominante in tutto/
tutti inglobante, insonne in irreversibile
dormiveglia
digitante: il virtuale
universo di ego potenti
di tutti/tutto ridendo
a crepaterra
…
voce limite, assidua
mia e non mia, di ultime
chiamate residua
…
… … … sia
Gian Mario Villalta
Un libro, Dove sono gli anni, complesso e che misura le distanze. Tra sé e il proprio passato. Tra sé e gli altri. Tra sé e la natura. Rimanendo fedele e fiducioso nella possibilità non divulgativa della parola ma di interpretazione, di comprensione della realtà implicità in essa. Intendendo per comprensione un atto non esclusivamente razionale e conoscitivo ma specificatamente poetico. Una sorta di forza di gravità che trasversalmente percorre l’appartenenza, l’identità, il vivere e la vita stessa.
Alessandro Canzian
Le mani hanno creduto, hanno obbedito al tempo.
Quante volte hai sbagliato e lo sapevi dopo
la curva dei pensieri, il muro dei sensi, i desideri
ostinati a tenerti nel tuo cervello altrove.
Troppa realtà, troppa solitudine,
tu che volevi vantare il senso di quelle parole
che stavano insieme bene in un’altra vita vera.
Ogni volta il disordine è stato un giorno nuovo
ma non hai potuto disfarti, troppo tardi
ricominciare, e in quelle parole non ti volevi più.
Solo chi se ne andava per sempre ti teneva con sé.
Si portava via i gesti che non potevi più dire.
E poi di nuovo, a tradimento, nelle cose da fare,
nei pensieri arrivati da dirti di nuovo vivo, un peso
parte di te stesso, senza lasciare nessun peso indietro.
«Senza aggiungere numeri alla solitudine
fuori ogni distanza misura i tuoi versi
dove c’è stato e c’è posto nei secoli
per la speranza, l’orrore e la felicità.
Dova cade l’ombra sul tavolo, a metà
del foglio finisce l’autunno.»
«Cosa c’entra l’orrore con la speranza?» ti ha detto
lei risentita, negando un sentire che non accetta,
capito male l’appunto
gettato di fretta: che eterno
è il dolore degli uomini – volevi scrivere –
e fatto proprio di quello (speranza, orrore, felicità)
che ci confonde e attraversa.
Vuoti le tasche, appendi
la giacca, ti siedi vicino a guardarla.
«Non lasciare più – ti biasimi – in giro i tuoi pezzi di carta.»
Ora dorme e tu metti i pensieri sul cuscino
accanto a dove la tempia pulsa la sua luce.
Dorme in pieno giorno dopo l’accusa
di non essere per te abbastanza – il rancore e il pianto – ha le ciglia
lucide. Ti vuole bene. È tua figlia.
Anche loro erano come te e tu ancora per quanto
quello che le lacrime in tasca – come tua figlia
pretendevi che per te fosse bella
la loro vita – per te fosse valsa la pena di averla
avuta e finirla, come se la solitudine
fosse una colpa solo tua che tu per amore
eri bravo a tenere nascosta.
La vita che esplode dal disciogliersi
dei ghiacci ci minaccia
è la stessa che sogna il paradiso nella lingua mortale.
Nascere è animale, e umano con la memoria
e la parola diventare quell’io che vuole sapere
perché. Un senso da noi, i mortali, imposto
dentro il fluire-margine
del tempo, che la generazione incessante
di quanta è tutta la vivente
terra ignora,
come ignora la morte,
perché resiste su questo pianeta
ciò che muta e mutando esiste.
Nascere è metamorfosi, e appare
la morte come l’ultimo mutare, ma non è,
non cessa la vita quando si dissolve
l’io che si dice nella voce.
Si rivolta contro
se stessa la mente, da quando – costretta – ammette
che alla vita sulla terra non importa il suo amore,
e sempre è stata contro natura, la natura
da lei pensata, e spaventati
se ne sono scappati via gli dèi, già allora.
non è stato un giorno, non una volta sola, o forse
quella sola volta ha voluto ripetersi nella memoria
che è stata, potessi dire: voltarsi
verso il sole, il sangue svegliato nei sensi, luce,
aria, il giorno che inonda
quell’essere inizio
di nuovo, non sai da dove, è come dire aria
la parola più bella, luce la parola che viene
quando resti senza parole, perché la luce,
perché l’aria… sostare, insistere, e
sistere,
perché – la risposta