Donne e magia nelle rappresentazioni letterarie dell’antichità greco-romana


 

Nel mondo greco-romano le arti magiche sono sempre state guardate con una buona dose di sospetto. Il mágos (denominato anche góes) è colpito da un persistente pregiudizio, che, corroborato dalla cultura giudaico-cristiana, verrà accolto in eredità dalla mentalità moderna.

Emblematico è un noto passo di Platone, che in Repubblica (364b) ritrae «ciarlatani e indovini» presentarsi alle porte dei ricchi per convincerli di poter rimediare alle ingiustizie, come pure di poter procurare il male, per mezzo di sacrifici, evocazioni ed incantesimi: «perché, dicono, persuadono gli dèi a servirli».

Se, da un lato, le testimonianze archeologiche e papirologiche documentano l’ampia diffusione della magia presso ogni classe sociale al di là delle distinzioni di genere, scrittori, poeti e intellettuali contribuiscono a diffondere un pressoché unanime giudizio negativo su tali pratiche, attribuendole di preferenza alle donne.

L’argomento è vasto e complesso; per un quadro generale, comprensivo di una disamina sul piano antropologico e storico-religioso, rinvio all’interessante e sempre valido saggio di Fritz Graf, La magia nel mondo antico (Laterza 1995). In questa sede prenderò in considerazione due opere significative per la rappresentazione letteraria della donna maga: l’Idillio II di Teocrito (IV-III sec.a.c) e la Pharsalia di Lucano (I sec. d.c.).

Punto di riferimento obbligato per le successive raffigurazioni della magia erotica in poesia, da Virgilio agli elegiaci romani, l’idillio teocriteo, intitolato Pharmakeútriai (Le maghe), mette in scena, per l’appunto, un rituale magico. Nel bel mezzo di una notte di luna, una donna, Simeta, pratica un incantesimo con l’aiuto della sua schiava Testili, allo scopo di riconquistare il suo amante, Delfi, che si è allontanato da lei. Il testo si struttura in nove strofe, separate dal ritornello «O ruota (íynx), attira alla mia casa quell’uomo», e può essere suddiviso in quattro parti: l’introduzione e tre diverse fasi dell’azione magica. I versi introduttivi presentano i preparativi del rituale: le maghe si procurano l’alloro e i phíltra (termine vago, che designa genericamente gli ingredienti per la magia d’amore) e cingono la bocca di un cratere con della lana color porpora. Quindi l’incantesimo ha inizio.

Nella prima fase, Simeta fa bruciare dell’orzo, delle foglie di alloro e dei baccelli, che sparge sulle fiamme affermando: «Io spargo le ossa di Delfi» e «così anche Delfi distrugga nella fiamma le sue carni». In questo modo l’amore, simboleggiato dal fuoco, si riaccenderà nel corpo del giovane uomo. Segue una preghiera ad Ecate-Artemide, divinità lunare legata all’oltretomba. L’abbaiare dei cani segnala il sopraggiungere della dea, e Simeta per proteggersi fa suonare un gong.

Nella seconda fase, la maga fa sciogliere della cera pronunciando le parole «così si strugga d’amore all’istante Delfi di Mindo»; quindi fa ruotare un rombo e offre tre libagioni, con la preghiera che alla stessa maniera l’amato si aggiri presso la porta della casa di lei, dimentico di ogni altro amore.

Nella terza fase Simeta strappa un lembo del suo mantello e lo getta nel fuoco; poi ordina a Testili di impastare dei thróna (dei generici phármaka) al di sopra della soglia dell’abitazione di lui, pronunciando la formula: «Impasto le ossa di Delfi». In seguito tritura una lucertola per farne una bevanda da offrire al suo innamorato e, in ultimo, preannuncia riti spaventosi nel caso in cui Delfi non si lasci riconquistare.

I procedimenti descritti nell’idillio si basano sui principi della magia “simpatica” (il simile attira il simile); a parte questo, si riscontrano scarse corrispondenze tra la descrizione di Teocrito e gli incantesimi effettivamente attestati nei papiri e nelle testimonianze epigrafiche. Nella sua puntuale analisi, Graf conclude che l’opera del poeta siracusano non costituisce una fonte di informazioni sulla magia dell’epoca; andrebbe piuttosto considerata una rappresentazione letteraria, che rispecchia il punto di vista del pubblico colto contemporaneo di Teocrito, portato a guardare ai riti magici dall’alto, con un certo divertimento, dalla prospettiva di intellettuali illuminati.

La Pharsalia di Lucano è un testo che ha notevolmente contribuito a costruire l’immagine della donna strega. La maga tessala Eritto, consultata da Pompeo il giovane (cfr. vv. 506-569), ha tutte le caratteristiche dell’incantatrice malvagia: vive fuori dalle città, nelle tombe vuote; colleziona cadaveri di morti prematuri e di impiccati; sotto i suoi passi i germogli avvizziscono, e ovunque cammini l’aria si intride di veleni; contamina i sacrifici mescolando il fuoco dei roghi al fuoco puro degli altari; ruba l’incenso dalle are funebri, turbando l’ordine dei funerali. Gli dei stessi la temono e per questo le concedono ogni nefandezza.

A seguito della richiesta di un rito divinatorio da parte di Sesto Pompeo, Eritto si reca sul campo di battaglia in cerca di un cadavere. Trovatolo, lo depone in una fossa buia in mezzo ad una ombrosa foresta; vestita con panni variopinti e incoronata di serpenti, fa colare il sangue dal corpo del morto e lo cosparge di veleno lunare, quindi dà inizio al suo carmen, emettendo suoni disarticolati e privi di senso, grida e ululati simili a quelli di bestie notturne e delle forze della natura. Poi invoca in lingua greca le divinità infere, ingiungendo loro di conferire al defunto la facoltà di parlare; dal momento che questo primo appello rimane inascoltato, Eritto ricorre alla minaccia di rivelare i segreti del Tartaro. Stavolta il morto si rianima e la maga gli promette, se lui la asseconderà, una sepoltura che in futuro lo proteggerà da qualsiasi atto magico. Ricevuta tale garanzia, il defunto concede le profezie richieste, e alla fine la strega, onorando la propria promessa, brucia il cadavere.

Quella che Lucano descrive è una nekyomanteía, una forma di divinazione magica che consiste in una serie di procedure per entrare in contatto con un essere sovrumano al fine di avvantaggiarsi del suo sapere; ma, a giudicare dalle testimonianze ricavabili dai papiri, il ricorso a un defunto è raro. Il ritualismo seguito da Eritto trova riscontri in singoli dettagli: i suoni “barbari”, l’imitazione di versi di animali, le minacce agli dèi inferi. Anche questo testo, come quello di Teocrito, è specchio di una diffusa visuale esterna, generica e stereotipata; ma, mentre in Pharmakeútriai la magia è presentata come uno svago piccolo borghese, i versi della Pharsalia la trasformano in una radicale perversione della cultualità religiosa (così Graf, cit., pp. 196-197). Se Teocrito tende a ridicolizzare la donna che pratica riti magici, Lucano arriva a renderla una strega malvagia e terrificante. I risvolti del consolidarsi di tale immaginario sono ben noti, e sfoceranno drammaticamente in quella “caccia alle streghe” che avrebbe mietuto innumerevoli vittime e lasciato segni indelebili nella coscienza collettiva.

La rappresentazione letteraria della magia costituisce dunque un netto capovolgimento rispetto alle fonti storiche, che documentano come questi rituali venissero praticati dagli uomini in primis: il magico doveva essere un’arma segreta, indegna di un mondo maschile basato sul coraggio e sull’ideale guerriero. Ciò ci porta a riflettere sull’idea dicotomica di un femminile incline al sotterfugio, legato a un potere sottile e recondito, e di un maschile propulsore di una forza immediata e diretta, spesso violenta; un pregiudizio intrinseco alla mentalità patriarcale, dura a morire, che continua ad agire, ora sotterraneo ora prorompente, nell’esperienza ordinaria del mondo odierno.