Dizionario critico della poesia italiana, 1945-2020 – Mario Fresa


Bozza automatica 2887

ANTEPRIMA Dizionario critico della poesia italiana, 1945-2020 (Società Editrice Fiorentina, 2021, a cura di Mario Fresa – in distribuzione da fine maggio).

 

In circa duecentocinquanta schede, alcune delle quali non lontane da veri e propri saggi brevi, questo Dizionario critico della poesia italiana (curato da un gruppo di specialisti coordinato da Mario Fresa) offre una ricca cartografia e un’articolata rassegna delle figure principali della letteratura poetica italiana degli ultimi decenni, da Zanzotto a Sanguineti, da Fortini alla Rosselli, da Raboni a Cucchi, da Scotellaro a Erba, dalla Spaziani a Zeichen, ecc.

Il Dizionario pone a disposizione del lettore una serie di precisi e documentati ragguagli non soltanto sull’attività dei poeti italiani più noti e conosciuti, ma anche su quelli le cui opere sono state non di rado sottovalutate o trascurate, o addirittura colpite da un’ingiusta, e spesso incomprensibile, damnatio memoriæ (come, ad esempio, Landolfi, Cesarano, Piccoli, Blotto, Quadrelli…).

Una guida preziosa, destinata sia al ricercatore sia al lettore non specialistico di media cultura, che racconta le vivaci e complesse vicende della poesia italiana contemporanea, partendo dal 1945 per concludere con un’attenta ricognizione delle tendenze più attuali della nostra giovane poesia.

Tra i redattori delle “voci”, oltre al curatore Mario Fresa, possiamo ricordare Maurizio Cucchi, Plinio Perilli, Luigi Fontanella, Tiziano Rossi, Davide Rondoni, Eugenio Lucrezi, Cecilia Bello Minciacchi, Monia Gaita, Enzo Rega, Giuseppe Marchetti, Maria Borio, Marco Corsi, Sebastiano Aglieco, Matteo Zattoni, Mary Barbara Tolusso, Matteo Bianchi, Ugo Piscopo.

 
 

Il curatore

 

Mario Fresa (Salerno, 1973) ha collaborato o collabora alle principali riviste letterarie: «Paragone», «il verri», «Nuovi Argomenti», «Caffè Michelangiolo», «Almanacco dello Specchio», «Poesia». È presente in varie antologie pubblicate sia in Italia sia all’estero, da Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) a Veintidós poetas para un nuevo milenio (in «Zibaldone. Estudios italianos»; Università di Valencia, 2017). Tra i suoi ultimi libri di poesia: Uno stupore quieto (Stampa2009, con prefazione di Maurizio Cucchi, 2012; menzione speciale al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como); Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con opere visive di Mattia Caruso, 2015); Svenimenti a distanza (Il Melangolo, 2018, con una riflessione critica di Eugenio Lucrezi; Premio Internazionale Cumani Quasimodo); Bestia divina (La scuola di Pitagora editrice, 2020, con un saggio di Andrea Corona). Nel campo saggistico, ha tra l’altro curato curato l’edizione critica del Salterio Il Tempo, ovvero Dio e l’Uomo di Gabriele Rossetti (nella collana dei Classici dell’editore Carabba, 2012) e la traduzione e il commento dell’Epistola De cura rei familiaris attribuita a Bernardo di Chiaravalle (Società editrice Dante Alighieri, 2012). Fa parte del comitato di redazione delle riviste «Gradiva» e «La clessidra».

 
 
 
 

Di seguito, riportiamo un intervento critico (ripreso nel Dizionario) dedicato alla Neoavanguardia e al Gruppo 63. Il testo è stato redatto da Ugo Piscopo.

 

Vista a distanza, sui tempi medio-lunghi, bisogna dire che la Neoavanguardia non è stata né quello che i suoi animatori e i suoi fan volevano che fosse (la scoperta di un nuovo mondo), né quello che dicevano i suoi avversari (una specie di bolla di sapone). Essa ha il merito di aver ravvivato e radicalizzato il dibattito nella poesia, nella narrativa, nella critica, nel teatro, nelle arti, nell’estetologia – le polemiche fanno sempre bene, dice Ezio Raimondi -, di aver raccolto tensioni e aspettative che erano nell’aria a livello non solo nazionale già dal dopoguerra, di avere dato imbeccate e suggerimenti per la nascita e la crescita di situazioni culturali e di gusto successive lievitanti nel segno del nuovo o dell’avanguardismo tout court, e di aver portato alla ribalta una nuova generazione di autori, che non è cosa da poco.

La Neoavanguardia non spunta fuori dal nulla. A monte di essa, c’è l’avanguardia storica (futurismo, dadaismo, cubismo, espressionismo, costruttivismo, raggismo, suprematismo, De Stijl, Bauhaus, surrealismo), perciò si dà quel nome, che vuol dire “nuova avanguardia”. Nasce, quindi, con la consapevolezza di avere alle spalle una tradizione (quella del nuovo), ma sul fondamento della necessità di un ripensamento e un ridisegno complessivo, se non ab imis, di quelle prospettive. E, sotto questo aspetto, essa concorda col proprio tempo, incalzato dalla fame di rinnovare e far crescere i linguaggi espressivi e lo stesso patrimonio speculativo. È significativa l’esplosione quasi simultanea di movimenti e tendenze costituiti nel segno del nuovo: il Neorealismo, che sarebbe più giusto dire Neorealismi, il Neofreudismo, la Nuova Antropologia, le Nuove Scienze Umane, la Nuova Fenomenologia, in cui riecheggiano tanti altri nomi di movimenti del passato battezzati col “Neo”, come Neoclassicismo, Neogotico, Neoimpressionismo, Neopositivismo, Neoplasticismo.

Rispetto all’Avanguardia storica, la Nuova si dà il profilo di un movimento più rigoroso, coerente, lucido, perfino cinico, come dice Sanguineti, nel progettare e nel fare, appoggiandosi a griglie di una razionalità, che deve costantemente confrontarsi innanzitutto con le antitesi e con le perversità della storia. Ovviamente, per aprire varchi ad altri comportamenti linguistici, immaginari, estetologici, intellettuali, ma anche ad altra sensibilità e ad altra condizione umana, rispetto a cui ci si trova maledettamente in ritardo e colpevoli. Operare, infatti, in sede culturale significa assumersi gravi responsabilità e mantenere una avvertita coscienza di rischi di connivenze e colpe. Si allacciano, così, forti cinghie di trasmissione con problemi sociali, politici, etici. Su questi versanti, lo stile è dello strappo irricucibile, dei guasti e delle sortite da guerriglia. Sul piano linguistico, in tutti i settori (letteratura, teatro, visualità, musica), si marca nettamente la diversità attraverso la dialettica negativa nei confronti sia delle consuetudini del passato (e di chi continua a interpretarle: Bassani, Pratolini, Cassola), sia di un generico modernismo, sia dei poteri occulti dei nuovi media. Le provocazioni si enfatizzano e si esaltano, sino a sfiorare deliberatamente il rischio di cadere nella demenzialità e nel kitsch.

Tali indirizzi vengono da lontano. Tra i precedenti più diretti e immediati, bisogna tener conto delle pulsioni provenienti dagli stessi movimenti storici dell’avanguardia a opera di radicalizzazioni, divaricazioni e fughe in avanti che si accentuano nel corso degli anni Trenta. Durante, poi, il secondo conflitto mondiale, non solo in Europa e in Italia (interessante è la posizione di Carlo Belloli), ma anche altrove, come in Brasile e Argentina, ci sono forti sussulti di impazienza nei riguardi dell’esistente.

Nel dopoguerra, quindi, scoppia la febbre dei ricambi, delle rottamazioni, delle sperimentazioni di altro. In Italia, nelle arti figurative si spalancano le porte a quello che Germano Celant chiama “l’inferno”. Si diramano dovunque e si confrontano gruppi e antigruppi, si lanciano manifesti, si celebrano scomuniche laiche. Si diffondono riviste “militanti”, come il “Menabò” di Vittorini, “Officina” di Pasolini, Leonetti, Roversi, “il verri” di Luciano Anceschi, nutrito di cultura fenomenologica, studioso delle poetiche del moderno, sostenitore del nuovismo. Soprattutto quest’ultima rivista fa da tribuna per il lancio di giovani autori orientati a svecchiare il gusto e a fare guasti nei reticolati di ogni pacificante e soporifero conformismo, stimolando chi scrive e pensa ad avvicinare le punte di mimesi artistica e oggettività.

Così, già nella seconda metà degli anni Cinquanta, si forma un collante che tiene insieme il vecchio Palazzeschi e i giovani Sanguineti, Malerba, Lombardi, Leonetti, Gozzi, Ferretti, Lucentini, Amelia Rosselli, Pagliarani, Alfredo Giuliani. In mezzo a loro, germinano idee di riletture e riesami del futurismo e dell’avanguardia, oltre che di posizioni squisitamente moderne, come quelle di Eliot e di Pound. Si accarezza un linguaggio provocatorio, parodistico, dissacratorio, anarchicheggiante. Nel 1961, si forma il gruppo dei “Novissimi” (Pagliarani, Sanguineti, Giuliani, Balestrini e Porta).

Con questi, si aggregano a Palermo, nel 1963, tanti altri, tutti i giovani sopra nominati orbitanti attorno ad Anceschi e al “Verri”, con l’aggiunta di Renato Barilli, Alberto Arbasino, Roberto Di Marco, Enrico Filippini, Giuliano Gramigna, Giuseppe Guglielmi, Michele Perriera, Lamberto Pignotti, Adriano Spatola, Cesare Vivaldi. Dall’esterno, ci sono simpatizzanti attrezzati, come Umberto Eco. Tutti insieme, a Palermo, dove è già fiorente una “scuola” neoavanguardista, si costituiscono come movimento, a cui è dato il nome di Gruppo 63, assumendo a modello il Gruppo 47, fondato in Germania appunto nel 1947. L’esemplarità della cultura tedesca contemporanea, per il Gruppo 63, non è circoscritta al movimento chiamato in causa, ma si estende in maniera partecipata ai dibattiti in atto, soprattutto quelli stimolati dalla Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Benjamin, Marcuse), e alle situazioni ribollenti di contestazione.

L’orizzonte di osservazione, però, è aperto a trecentosessanta gradi sul piano internazionale. Si stabiliscono, ad esempio, dei canali intercomunicanti con l’École du regard francese, si fa crescere la simpatia per la Beat generation (in particolare per Ginsberg e Burroughs), e per i dibattiti fermentanti di germi oppositivi, come nell’ambito della New Left americana che teorizza l’”azione diretta”.

Intanto, Per legittimarsi sul piano nazionale, il Gruppo 63 ricostruisce una linea culturale nostra, “altra” e nuova rispetto ai quadri vulgati e imposti dall’ufficialità. Va a cercarsi le origini nel secondo Ottocento, quando si consuma la crisi delle certezze del grande realismo e dello storicismo romantico, quando cominciano a vacillare le assunzioni vantate come scientifiche del positivismo, quando si diffondono veleni e turbamenti che si insinuano sottilmente nella letteratura e nell’arte. Vengono letti in una luce nuova Pascoli e d’Annunzio. Vengono cercati e interrogati testi fino allora sottostimati o liquidati come semplici documenti dei turbamenti “fin de siècle”, quali soprattutto quelli degli autori orbitanti tra simbolismo e liberty. Viene scoperto ed esaltato come un anticipatore dell’avanguardia un autore, su cui gravava un ingiusto silenzio, come Lucini. Si dà legittimità di circolazione e di cittadinanza a Marinetti e ai suoi compagni di strada, colpiti dalla damnatio memoriae nel secondo dopoguerra come corresponsabili col fascismo della tragedia della guerra e degli altri disastri non solo nazionali. Tra gli scrittori più recenti, viene scelto come maestro Carlo Emilio Gadda, per la sua personalissima mimesi della visione schizomorfa del mondo e per la sua attenzione lucidissima rivolta alla matericità e all’eteronomia del linguaggio.

Pur tra feroci polemiche e non ostante il fuoco di sbarramento del conservatorismo, il “Gruppo 63” riesce ad acquistare sempre maggiore credibilità, ad entrare come forza propositiva e innovatrice nel campo della gestione delle idee e negli ambiti editoriali.

Presso l’Einaudi (“La ricerca letteraria”), presso la Feltrinelli (“Materiali”), presso la Lerici e altre case fondano, fanno aprire nuove collane dedicate esclusivamente alla Neoavanguardia e dintorni. Producono, inoltre, o inducono a produrre fogli, pubblicazioni periodiche, riviste (“Malebolge”, “Quindici”, “Marcatré”, “Grammatica”) di sostegno, diffusione, approfondimento delle loro prospettive. Ma nel 1969, dopo il terremoto della contestazione, il Gruppo 63 si scioglie. Di qua, una diaspora, molte malinconie, e tanti svolgimenti personali. In controluce, però, continuano a dare suggerimenti e, soprattutto propongono agli altri e ai nuovi autori il dilemma di tener conto o meno dei problemi da loro sollevati e degli effetti da loro indotti nella pratica della scrittura e nei concetti di arte, letteratura, ideologia, linguaggio.

Ma se il Gruppo 63 finisce con un discursus interruptus (traumaticamente), come pure si disse, la Neoavanguardia non finisce. Per un ventennio e oltre ancora, essa, se non detta l’agenda letteraria e artistica in Italia, certamente è uno dei referenti fondamentali del gusto e delle ricerche linguistiche. Non è un caso che nel corso degli anni Settanta e Ottanta, formalismo, strutturalismo, semiotica e dintorni, cari ai neoavanguardisti e più latamente agli sperimentali, siano tratti connotativi della cultura nazionale. Solo che, per quanto concerne lo svolgimento e il profilo della Neoavanguardia, diventa un problema osservarli unitariamente. Bisognerebbe dall’inizio degli anni Settanta parlare di Neoavanguardie. Che si diramano e si innervano sia al centro sia in periferia, come all’interno di un villaggio globale, per servirci di una felice espressione coniata da McLuhan, e si coniugano non proprio come morfologie ognuna per sé, ma quasi. Intanto, viste complessivamente, esse funzionano come sciame sismico che tiene in allarme un po’ tutti, a Milano, come a Napoli e a Palermo, nelle piccole come nelle grandi città. Disseminano e rinfocolano amori e odi, apologie e condanne, slogan e dibattiti. Intanto, producono cultura, costituita, all’interno e fuori sulle cifre della consapevolezza del rapporto fra ideologia e linguaggio, dell’uso critico dello strumento espressivo, della nessuna indulgenza per le compromissioni e gli allettamenti alla mediazione, del recupero del reale nella sua autenticità, soprattutto dell’interruzione della comunicazione ai fini di comunicare il proprio dissenso e la propria volontà di antitesi.

Di tanta vitalità, abbiamo attualmente documentazioni parziali e mappe approssimative. C’è il rischio reale che molta memoria di essa affondi nell’oblio. Occorrerebbe, ricostruire le varie vicende o per indirizzi (poesia visiva o verbo-visuale, scrittura concreta, scrittura tridimensionale, poesia sonora, libro d’artista, mail art, postlettrismo, postsituazionismo, ecc.) o per luoghi geografici, perché la territorialità fa identità, innanzitutto linguisticamente. A Napoli, ad esempio, la lingua napolitana non si sottrae all’opportunità di saggiarsi anche neo avanguardisticamente, come risulta da vari interventi di Luca Castellano, o come funziona nei drammi, nelle poesie, nelle canzoni di Luciano Caruso. A Napoli, poi, l’agonismo neoavanguardista ha aiutato a porsi in essere, dagli anni Cinquanta in qua, situazioni molto interessanti, tra le quali non se ne possono non citare due, a campionatura di esiti incisivi del sabotaggio dell’ufficialità e dell’accademicità, della lucidità delle analisi, del simultaneismo di assaggi di linguaggi diversi. La prima è costituita dal Gruppo 93 (1989-1993), dove la napoletanità si sperimenta come cordiale slancio al dialogo con Roma, con Genova, col mondo, cioè con una contemporaneità cosmopolita e multipla. La seconda è “Risvolti”, fondata nel 1998 e diretta da Giorgio Moio, che funziona da trincea di resistenza dell’avanguardia in tempi pieni di divagazioni e, comunque, del tutto avversi alla nominazione stessa delle contraddizioni.

 

Ugo Piscopo